Roberto Latini: la libertà d’attore, un fiore nel deserto

“Abbiamo bisogno di credere a ciò che vediamo”, scriveva Antonin Artaud nella sua raccolta di saggi “Le Théâtre et son Double” auspicando che il teatro potesse farsi uguale a una sorta di vita liberata in cui mettere a nudo la carne delle parole.
Spogliarsi del superfluo, farsi deserto per ricominciare in modo più disincantato. Dal deserto possono venir fuori miraggi, ma l’azzeramento costituisce anche la condizione ideale in cui far sbocciare il meraviglioso umano se ci sono voci in grado di innaffiarlo. Questo fa l’attore che consente l’incontro e che non interpreta semplicemente Shakespeare o Pirandello. Questo fa l’artista in contatto con il sentimento della perdita, si disappropria di quell’aspetto individuale della vita in cui trionfano i caratteri per imparare a sentire, ascoltare insieme con lo spettatore. Su tale scia il teatro di Roberto Latini è un fiore nel deserto, nel suo comportamento, nel suo modo di stare in scena, nella responsabilità di aver diretto per anni il Teatro San Martino a Bologna e in quella di averlo chiuso per «la mancata attenzione delle istituzioni», nel sottrarsi a mode o etichette per proteggere i petali della sua creatività d’attore. Intervistarlo nei pressi del Teatro Vascello, in occasione della sua opera teatrale “Pagliacci all’uscita”, vuol dire cogliere questa sua attitudine alla resistenza e alla salvaguardia della bellezza.
La ricerca non è il mezzo, è il fine. Come si colloca il percorso artistico della compagnia Fortebraccio Teatro rispetto a questa affermazione?
Nel segno evidente, e non di carriera, che la compagnia, e quanto gira intorno ad essa, non ha seguito convenienze. Questo è il prezzo da pagare per mantenersi liberi. Oggi sono contento di aver fatto “Pagliacci all’uscita” dopo aver rinunciato al contributo ministeriale e ai parametri che esso comporta. Ciò che ci muove non è un’urgenza, non è parola questa capace, piuttosto si tratta di un invito all’occasione teatro.
A proposito della tua formazione, durante gli anni al Mulino di Fiora cosa ha significato poter stare a contatto con una personalità così forte come quella di Perla Peragallo?
Ricordo il nostro primo incontro quando le dissi che volevo dare un’occhiata e lei mi rispose che non c’era proprio niente da guardare. Quella era stata già la prima lezione imparata con lei, che faceva il versaccio all’etimologia stessa del termine teatro. Alla fine del secondo anno le dissi che volevo fare quello nella vita e lei mi sorrise, un sorriso di una delicatezza assoluta. E poi le pulizie e il lavoro svolto lì in segreteria prima e dopo le lezioni per poter continuare a studiare, altrimenti non me lo sarei potuto permettere.
Dopo il “Faust” con la regia di Luca Micheletti e la “Medea” di Federico Tiezzi, qual è per te il senso più alto del lavoro in coro con gli artisti di “Pagliacci all’uscita”?
A differenza degli altri lavori, in “Pagliacci all’uscita” ho scelto io gli attori, che per me vuol dire scegliere le persone in termini di adesione e onestà intellettuale. Ilaria Drago poi la conosco da quando avevamo vent’anni. Lei si era iscritta un anno dopo alla scuola di Perla.
La tua operatività teatrale si è mossa sempre dentro le smagliature di un sistema che sembra considerare l’arte scenica più come merce che per il suo valore artistico. Cosa ha voluto dire in questi anni difendere la tua autonomia?
Significa pagarla tutta e cara questa autonomia. Sono sei anni che vivo a Milano, ma per quattro anni non ho fatto uno spettacolo, lì ci ritorno a giugno con l’appuntamento al teatro Elfo Puccini, ma mi pare davvero un periodo di tempo troppo lungo.
Credi che il rapporto tra attori e platea sia capace oggi di generare un accrescimento di conoscenza?
Sì, assolutamente, un accrescimento di conoscenza e cose non conosciute da parte di entrambi, attori e platea.
Continua in forma di chiacchierata l’intervista con Roberto, i suoi occhi azzurri sotto il Borsalino blu scuro sono quelli di un tenace sognatore, di chi crede con fermezza nella dignità e nella vocazione del mestiere teatrale. Ogni suo pensiero si fa sollecitazione profonda, mentre parliamo di mancanze o carenze in questa epoca storica, come ad esempio quella che riguarda la mentalità piuttosto che il “metodo” del fare teatro, da intendersi come possibilità di incontro e di trasmissione di esperienza indispensabili affinché la poesia produca pensiero e viceversa in nome di un equilibrio dinamico. E ancora l’assenza, eccetto rari casi, di una politica che faciliti, invece di ostacolare o ignorare, il nascere di questa disponibilità mentale.
Spero di meritarlo il teatro, lo dico in termini di sacrificio, di abnegazione, mi confida Roberto alla fine, quando ci stiamo congedando. È una frase che mi si è conficcata in testa e che risuona enfatica in tutta la sua dichiarazione di verità. Riconoscere il peso di una simile responsabilità etica e viverla fino in fondo, fino alla consumazione, merita rispetto e amore per i nostri attori, custodi instancabili del teatro e della cultura come salvifiche visioni del mondo.
Diana Morea