“Ricostruzione nell’attimo del respiro della dissacrante epidermica di un osservatore abbastanza bravo a camminare o del dolore dell’acqua della decoerenza di una storia” di Simone Battig
È una lettura complicata quella di “Ricostruzione nell’attimo del respiro della dissacrante epidermica di un osservatore abbastanza bravo a camminare o del dolore dell’acqua della decoerenza di una storia” (Castelvecchi editore, 2019, pp. 270, euro 23,50) di Simone Battig. Complicata da affrontare già dal titolo e dall’immagine di copertina, che sembra rimandarci di storia in storia, di vite in vite e realtà parallele, giochi di specchi, non frammenti stonati ma vite circolanti in un labirinto quantico.
Simone Battig azzarda, costruisce il suo romanzo non sottraendo ma rilanciando; fermandosi in digressioni e poi riprendendo il filo. Come la scatola del gatto di Schrödinger, apriamo il libro trovandoci in un Prologo in forma di epilogo, o viceversa in cui il narratore ci pone la visione delle vite protagoniste della storia che andrà raccontando, vite al termine della loro esistenza ma che nel raccontarle riprendono vita, in un processo eterno.
“Ricostruzione nell’attimo del respiro…“ parte quindi dall’unico inizio possibile, da una nascita, quella di Mario Bianchi, nome tipicamente anonimo per un bambino nato l’undici settembre del duemilauno alle 14,48. A dispetto del suo nome, Mario non è un bambino come tutti, già prima di imparare a camminare è capace di parlare e ragionare con adulti, ponendo domande di estrema profondità e dimostrando una morbosa empatia con il mondo in cui vive, e dunque non solo verso le persone, verso i suoi simili, ma verso gli animali, le piante, la terra. A Trevolto, cittadina immaginaria nella quale si svolgono gli eventi narrati da Battig, l’unica persona che può sentire vicina la sensibilità del bambino è lo zio Eugenio: “Anche a Mario Eugenio voleva bene. E non avrebbe mai creduto che un bambino fosse in grado di trasmettere tutte le sensazioni forti che ogni volta provava quando stavano assieme. Probabilmente era il suo modo di vedere il mondo che l’aveva conquistato, un mondo dove tutto era verticale, illimitato e si proiettava ovunque. Gli adulti guardano il mondo come se fosse una distesa di cose senza dimensione. E nella distesa piantano paletti e recinti, per delimitarla e riconoscerla abitudinariamente. Lo sapeva perché anche lui faceva così, e non sapeva nemmeno se era un vero adulto. Ma Mario, per fortuna, era diverso.” Eugenio è soggetto a crisi che lo spingono a dimenticare fasi della sua vita, si definisce un terremotato, “oscillava, a tratti, mosso da continue scosse telluriche di bassa entità che gli spostavano il mondo da sotto i piedi e da sopra la testa, e quando c’era pace si riprendeva solo sentendosi una nuova forma addosso e intorno. Una strana sensazione, di continua ridefinizione.”
Simone Battig si trova indiscutibilmente a proprio agio nel delineare caratteri e ritratti, nel viaggiare nel tempo e nello spazio, così come ama utilizzare i dialoghi, a volte secchi, senza aver bisogno di descrivere delle azioni che li accompagnino. Avendo come protagonista un bambino prodigio, Battig lo fa dialogare spesso, con gli adulti e con i coetanei, dialoghi nei quali spesso sono corsivati gli errori e le storpiature ingenue dei bambini (“molinuscola” per “minuscola”, “Luni Tuns” per “Luney Tunes”, “Barbequo” per “Barbecue”, ecc.). Eppure, l’effetto mimetico del parlato, pare essere riuscito solo in superficie, ovvero nel riportare certi tic, mentre tutto ciò che dice Mario sa spesso di artificioso. Certo, l’effetto sarà voluto per via della prodigiosità dei ragionamenti di Mario, ma anche nel confronto coi coetanei ci sembra di sentire lo scrittore e non i personaggi. L’effetto di superficialità e artificiosità è però la patina che ricopre tutto il romanzo, che nello stile e nei richiami vuole costruire una impalcatura romanzesca che vada oltre il già letto, ma che nei contenuti appare meno coinvolgente. Pensiamo, ad esempio, alla storia d’amore di Eugenio con la giovane islandese Mae, che risulta, a conti fatti, essere melensa, a dispetto dell’investimento sentimentale in cui Battig cala il suo protagonista tra paesaggi ghiacciati, cieli stellati e tazze di the caldo.
Il libro di Simone Battig, lascia a fine lettura questo senso d’incompletezza e di un traguardo non raggiunto completamente, ma solo progettato e da ridefinire, un po’ come la sensazione delle nostre vite nei momenti di sconforto, quando cerchiamo intorno a noi la spinta giusta per ricominciare proprio da lì, da dove ci siamo fermati.
Giovanni Canadè