“RICCARDO PERSO” DI ALBERTO RIZZI AL TEATRO SS TRINITÀ DI VERONA
muoio ogni attimo io, e rinasco nuovo e senza ricordi:
vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.”
Uno, nessuno e centomila.
Luigi Pirandello
A Verona è prassi non perdere gli spettacoli ideati da Alberto Rizzi, si entra in sala curiosi e smaniosi di scoprire la nuova pièce e se ne esce silenziosi, increduli, in qualche modo cambiati. E il pensiero che rimane è quello di voler diffondere il verbo teatrale tra amici e conoscenti: andate, andate a vedere la nuova produzione di questo visionario e geniale regista. Il tema sociale non è nuovo a questa incredibile (credibile) macchina teatrale e questa volta ci si inoltra nel tunnel dell’Alzheimer: si va a scovare l’ultimo sovrano d’Inghilterra della casa di York, Riccardo III, reso celeberrimo e crudele dall’opera di Shakespeare, lo si spoglia dai connotati di terrore e violenza e lo si rende umano, fragile e malato. Diego Facciotti, già visto nelle precedenti produzioni Ippogrifo Molto piacere, Casanova e ILIADE, è un Riccardo Perso commovente e forte, e dona al pubblico una interpretazione di altissimo livello. La sua compagna di scena che è madre, amante, moglie e infermiera, è Chiara Mascalzoni, salita alle ribalte con il precedente pluripremiato Sic Transit Gloria Mundi e che si rivela nuovamente intensa e appartenente ad unico luogo, il teatro.
“Riccardo Perso”, anteprima assoluta dal 4 al 7 dicembre presso il Teatro SS Trinità a Verona, emoziona e stupisce, anche per la scelta delle scene che evocano l’idea di un re e del suo trono, del suo letto da malato, di una monarchia assoluta e, forse, di vette altissime inaccessibili. È quasi sinestetico, con i colori netti e importanti, con le luci precise e a tratti conturbanti, con la passione forte degli attori coinvolti. Non è uno spettacolo semplice e richiederebbe addirittura più visioni per essere compreso pienamente in ogni tratto, in ogni vezzo, in ogni particolare che si capisce essere stato studiato e riprovato una miriade di volte. La scelta di un personaggio teatrale come Riccardo III ha permesso al regista di esprimere i tratti salienti del morbo, spogliandolo della memoria, della lucidità, della ragione, facendolo a pezzi, mostrandolo nudo e senza più identità: <<come dei cani che ti mangiano il cuore>>. Sottolinea lo stesso Rizzi: “il malato di Alzheimer è tolto a se stesso e non importa se da sano fosse gentile o crudele, buono o cattivo: ora egli è altrove e restano custodi del suo passato solo i congiunti”. E proprio gli stessi familiari ricevono con quest’opera la giusta riconoscenza, una profonda dignità e rispetto: la Mascalzoni, Anna Neville, è quella moglie nella stanza d’ospedale o sola in casa, con il marito che appunto è in un Altrove, senza cassetti della memoria, senza occhi per guardarla. Ma mentre il malato non sa più di essere, <<ora io sono inverno>>, le persone che si sono amate hanno la lucidità e la presenza, hanno il fardello del ricordo che viene ricordato e poi subito sbriciolato in una continua danza. Riccardo è perso perché la malattia non lascia scampo, ti restituisce qualche barlume di visi o nomi che si riconoscono e poi via, i cambiamenti di umore, l’aggressività, i fantasmi e le voci.
Gli attori sono protagonisti sensibili e strazianti, prendono il pubblico e lo incatenano al dolore, all’amore di chi rimane presente e sceglie di poter condurre fino alla fine i propri cari. Quando una platea, a fine spettacolo, mentre il buio abbraccia il palcoscenico, non accenna ad applaudire meccanicamente, significa che qualcosa è accaduto: si può chiamare banalmente la magia del teatro o la bravura degli addetti all’opera, ma in questo caso non sarebbe sufficiente. Qui vi è stata una piena catarsi, che non ha colpito solo il pubblico, ma probabilmente anche gli stessi attori. E poi, giustamente, applausi forti e sentiti.
Silvia Paganini