Revolutija, uno sguardo sulla Russia dei primi decenni del ‘900
La mostra “Revolutija da Chagall a Malevich, da Repin a Kandinsky” al Mambo ci racconta tutto il tumulto sociale dei primi anni del ‘900 in Russia sublimato nell’arte. Il ruolo centrale lo detiene la rivoluzione d’ottobre (1917) che porta al rovesciamento dell’impero russo e alla formazione della Repubblica Federativa Sovietica Russa sostituita poi, nel 1922 in seguito alla guerra civile russa, dall’Unione Sovietica. La popolazione già stremata dalla prima guerra mondiale, sarà ulteriormente provata dai tumulti sociali del periodo e sarà soggetta a frequenti carestie durante gli anni della rivoluzione. Sono anni bui, pieni di sofferenza e dolore per il popolo, ma è anche un periodo di speranze, fiducia in nuove possibilità: la grande rivoluzione avrebbe portato ad un nuovo modello di vita.
E l’arte – che raccoglie e sublima tutto ciò – risulta, infatti, molto variegata negli stili, nei colori, nei messaggi. Ci si stupisce che richiami classici, figure astratte, realismo intenso e che tutto possa convivere nello stesso periodo. E poi c’è la denuncia sociale, spesso soffocata e nascosta, pochi artisti si azzardano a rappresentarla. Tra le prime opere in mostra troviamo “Soldatini, bravi ragazzi, dov’è ora la vostra gloria?” in cui Valentin Serov racconta i sanguinosi eventi del 9 gennaio 1905, ove gli operai disarmati, in manifestazione pacifica, vennero fucilati dai soldati. Sempre di Serov, ne il “Ritratto della ballerina Ida Rubinstein” si allontana dalla canonica rappresentazione della bellezza classica, restituendoci un’immagine femminile magra, malinconica, quasi sofferente, che mostra poco di sé, nascondendo le sue grazie, in netta contrapposizione ai quadri esposti nelle pareti circostanti, che richiamano invece l’ideale classico del corpo femminile, le cui curve sono ben definite e mostrate con una grazia mai sfrontata, piuttosto ingenua e spensierata. Poi ci sono le “Due ragazze contadine” di Filipp Maljavin che utilizza tratti ben definiti, dominate dal rosso e dai colori molto accesi e densi sulla tela, stesi con una modalità grezza, primitiva (metodo fauve), segue la “Venere” di Michail Larionov che prende solo il titolo dell’opera classica, mentre la rappresentazione raccoglie vari spunti legati alla realtà, dai riferimenti ai cartelloni pubblicitari ai tratti con cui è realizzata l’opera: parrebbe disegnata da un bambino. È una danza tra le figure femminili e le loro mille sfaccettature.
Kazimir Malevich è sorprendente nella sua modernità, nella sua sperimentazione, nella sua voglia di superare i limiti della rappresentazione figurativa. Dissacrante nella sua “Composizione con la Gioconda”, innovativo nel “Ritratto perfezionato di Ivan Klhun”, minimalista in “Eclissi parziale”, malinconico in “Presentimento complesso (torso in camicia gialla)”. È il fondatore della corrente suprematista ed è il primo pittore completamente astratto: sono affascinanti i costumi di una rappresentazione teatrale da lui realizzata, proiettata sullo sfondo della stanza. I costumi sono lì, imponenti, di fronte a noi e sembrano giganteschi. Verso la fine degli anni ’20 ritornerà a un certo figurativismo, ma le sue figure sono sempre senza volto, quasi manichini, come fossero senza nome, senza identità. Interessante la stanza in cui queste sue opere sono sistemate su una parete opponendosi alle opere del medesimo periodo che raccontano invece la realtà fin nel più piccolo particolare, propria del realismo socialista. Aleksandr Samochvalon e Aleksey Pachomov ci raccontano di sguardi vividi, di muscoli ben definiti, di persone in carne ed ossa occupate in attività di vita ordinaria come ne “la riparazione della locomotiva a Vapore”. Una contrapposizione che racconta le emozioni contrastanti dell’epoca.
Pavel Filonov impressiona con “la guerra germanica” dove scompone i corpi dei soldati e ce li restituisce in una ricomposizione forte, con prevalenza del nero e del rosso, come l’immagine originale fosse stata suddivisa in tessere ritagliate e poi rimesse sulla tela senza un ordine. Nel “banchetto del re” le figure sono inquietanti e l’ambiente tetro.
E, infine, uno Chagall inusuale, ne “la passeggiata”, dove un suo autoritratto sorridente, con la moglie che vola tenendolo per mano, ci racconta le speranze dell’epoca.
Una Russia tutta da scoprire, altalenante tra dolore e speranza. Possiamo, in questa mostra, assaporare tutta la vivacità creativa che l’ha contraddistinta ma che spesso è stata nascosta o ignorata.
Angelica Pizzolla