“Re Lear” – Mauri/Sturno diretti da Andrea Baracco all’Eliseo
“Non lasciate che il mio viso sia rigato dalle lacrime. No. Streghe, mi vendicherò su entrambe – farò cose che tutto il mondo – non so cosa farò! Ma giuro che la terra verrà scossa dal terrore. Voi pensate che io piangerò. No, non piangerò. Ne ho tutte le ragioni, ma questo cuore si frantumerà in mille pezzi prima che io pianga. Oh Matto! Impazzirò! …”
Appena il palcoscenico del Teatro Eliseo si apre appare la firma di Andrea Baracco. E questa volta è il turno di “Re Lear”, nella traduzione di Letizia Russo, riduzione e adattamento Baracco/Mauri – con la coppia Mauri/Sturno; il terzo Lear per Glauco Mauri, che lo abbraccia con passione e si inchina, davanti alla poesia shakespeariana, attraversandola.
È lì quella firma registica, a caratteri cubitali, di fronte ai nostri occhi: King Lear, sorretta da una struttura scenografica – firmata da Marta Crisolini Malatesta – somigliante a una macchina a ingranaggi, che ci riporta subito ai lavori passati di Baracco; struttura che racchiude la storia, nasconde i personaggi e li rigetta a noi, ora rigenerati ma sempre più spesso malconci e disperati. Ed il buio. Ambientazione dark, scura, a caratterizzare l’animo umano e la sua miseria dinnanzi al mondo. Ci sono fari diretti e precisi di luce – curati da Umile Vainieri – a illuminare fino ad accecare, ma che ci sorprendono anche alle spalle: la platea diventa così passaggio, mentre dipana la follia dei padri – di Lear prima e Gloucester poi – che si allontanano dai rispettivi figlie e figli, nella già presente assenza delle madri: Cordelia (una deliziosa Emilia Scarpati Fanetti), Goneril (Linda Gennari), e Regan (Aurora Peres), mentre speculare troviamo la vicenda di due fratelli, Edmund (Aleph Viola) assetato come Caino ed Edgar – nella performance encomiabile di Francesco Sferrazza Papa – tormentato, folle, incompreso, tradito dal suo stesso sangue e dal cui corpo fuoriescono quel dolore e quella rabbia che gli permetteranno di vendicarsi e sopravvivere, fino a incontrare il destino di Lear e del suo stesso padre, il conte di Gloucester, un Roberto Sturno che, nella cecità, rimanda a quell’indimenticabile Edipo pasoliniano che fu Franco Citti.
Il nero che attraversa gli occhi è il buio già preannunciato dalle iniziali proiezioni di corvi – di Luca Brinchi e Daniele Spanò – e dal Matto, sfrontato, sincero e fastidioso nelle sue premonizioni, nella scintillante interpretazione di Dario Cantarelli; mentre i rumori e le musiche si sfrangono e ci spaventano, grazie a Giacomo Vezzani e Riccardo Vanja. E ancora in scena il Conte di Kent (Enzo Curcurù), Oswald (Laurence Mazzoni), il Duca di Albany (Paolo Lorimer) e il Duca di Cornovaglia (Francesco Martucci).
La decadenza di un potere, di un uomo che svanisce – così come svaniscono le lettere del suo nome – homo fugit velut umbra – in una storia dove l’amore perde la sua forza salvifica, mutando tutto in tragedia. Forse ci siamo trovati di fronte a grida troppo stridule o forse quelle stesse grida sono solo il riflesso di anime che provano ad allontanarsi da corpi avidi e ingrati, come quelli di alcuni figli; ma fatto sta che il ritmo incalzante di questo Lear ci ha tenuti per quasi tre ore fermi ad aspettare un finale conosciuto, ma attenti a scoprirne sfumature differenti, per questa opera troppo spesso definita difficile da portare in scena. Ma che ora bisogna vedere, per forza!
Dopo la Prima Nazionale al Teatro della Pergola di Firenze, “Re Lear” sarà in scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 2 febbraio.
Marianna Zito
Foto di Filippo Manzini