“Qui non c’è niente per te, ricordi?” Una distopia troppo reale
“Qui non c’è niente per te, ricordi?” (La Nuova Frontiera, pp. 288, Euro 18,50), è il nuovo romanzo di Sarah Rose Etter, autrice statunitense.
“Ecco come stanno le cose: ho trentatré anni e da quasi uno lavoro nella Silicon Valley, aspettando che il senso della vita mi si schiuda davanti. Intorno a me, tutti i sintomi del denaro che spreme via l’anima da un luogo: i ricchi abitano in alte villette a schiera mentre i poveri, se sono fortunati, vivono in tende sporche e scolorite; negozi sprangati si alternano a nuovi bar salutisti: c’è chi defeca per strada e chi compra prelibatezze gastronomiche, chi mangia in ristoranti di lusso e chi nei cassonetti sul retro. È una città di estremi.”
Dopo meno di un anno, il lavoro dei sogni di Cassie alla Voyager, start-up della Silicon Valley, diventa un incubo. Schiacciata da orari di lavoro massacranti e richieste irragionevoli, smarrisce il senso della propria esistenza. Anche l’immagine sfavillante di una San Francisco carica di promesse si scontra con una realtà decisamente meno patinata, cruda, e che dovrà a breve affrontare un inevitabile cambiamento con la pandemia alle porte. Quando l’amministratore delegato la spinge a usare qualsiasi mezzo, lecito o illecito, contro il loro principale concorrente, Cassie dovrà fare i conti con quel senso della vita che disperatamente ricerca.
“Per sopravvivere qui, devo dividermi tra due identità: una vera e una fittizia. La finta me prende il controllo quando le pretese si fanno eccessive. Forse ognuno di noi è sempre doppio: c’è la personalità reale e quella che ci creiamo per sopravvivere nel mondo che ci è capitato.”
Cassie è immersa in un contesto solo all’apparenza distopico. La Etter descrive uno scenario fin troppo reale e non confinato alla sola San Francisco. Aziende votate al profitto che spingono ad andare sempre oltre – dove? – e chi dorme per strada. Come riconoscersi, come non perdersi se si vive nel mezzo? Carri lavora nella Silicon Valley e ha un senza tetto che dorme sotto la sua finestra. La migliore amica che riesce a trovare è Maria, presa da un lavoro con mansioni super segrete e in lotta con attacchi di panico che tiene a bada a suon di alcool e calmanti. Frequenta uno chef fatto di molta apparenza e poca sostanza, e quella poca appartiene a un’altra.
Cassie è una persona sola, ma fin dalla nascita è accompagnata da un buco nero che si nutre delle sue ansie, dilatandosi o restringendosi in base al suo stato d’animo, e la osserva, aspettando il momento di avvolgerla completamente. Il titolo originale del libro “Ripe” rende bene l’idea di qualcosa di maturo, stagionato al punto da nascondere del marciume. Così si sente Cassie. E se cerca appoggio in quella famiglia che forse non l’ha mai davvero supportata, si sente ripetere “Qui non c’è niente per te, ricordi?”, come nel titolo tradotto da Lorenzo Medici che ci trasporta subito nella dimensione di solitudine, malinconia, nell’assenza di alternative.
“In quel lampo di luce bianca e accecante, vedo tutta la mia vita: l’agenda piena da cima a fondo di riunioni; ogni ora, ogni minuto, ogni secondo sacrificato a questo AD e alla sua creazione, alla missione della sua vita, non della mia. Penso al mio conto in banca, al mio appartamento minuscolo e carissimo, al momento della mia morte, all’ultimo respiro. Alla fine, tutto questo conterà qualcosa?”
Cassie, ormai superati i trenta, continua a metter insieme i pezzetti di un gioco che non ha più voglia di giocare, e cambiare rotta, se il contesto in cui siamo immersi è ostile, può non essere così facile né immediato. Cassie accetta una certa quantità di dolore, per evitarne una più grande. È questa l’età adulta? Smettere di andare controcorrente e iniziare e galleggiare? “Offerte sacrificali ai treni di pendolari”.
Forse le nostre vite sono bugie che scegliamo di raccontarci?
“La verità profonda della vita è così: sempre lì, in un angolo, che aspetta di affondare il coltello nel cuore delle nostre illusioni.”
Laura Franchi