“PUEBLO” DI ASCANIO CELESTINI AL TEATRO GOBETTI DI TORINO
Secondo capitolo della trilogia decollata nel 2015, “Pueblo” di e con Ascanio Celestini è in scena al Teatro Gobetti di Torino fino al 24 febbraio. Lo spettacolo inizia da un gesto che nella vita quotidiana è alla portata di tutti, ma che in tanti preferiscono non fare: scostare le tendine, sporgersi da dentro a fuori e aprire lo sguardo, perdersi nel guardare il dentro di altre finestre, altre esistenze, fino a dove l’occhio è capace di vedere e, da lì̀ in poi, planare con l’immaginazione. Non si tratta di inghiottire a proprio uso e consumo la vita degli altri, come farebbe un guardone, ma di inventare la storia di chi abita a ridosso delle parentesi del mondo, per cercare quanto meno di capire, come farebbe un poeta, se quelle parentesi sono chiuse o aperte. È questa la rotta tracciata insieme a Mario, interlocutore e speciale compagno di viaggio di Celestini nella trilogia: persona, cioè̀ maschera, costruita dall’unione di un corpo – quello del musicista Gianluca Casadei, che ricama nel racconto suonando la fisarmonica – e dalla voce fuori campo del figlio Ettore Celestini.
Violetta, giovane cassiera, è orfana di un padre che ogni sera la attende fuori dal supermercato, fantasma silenzioso e delicato. Soltanto a lui Violetta può confidare, nel tragitto verso casa, la perdita di identità in un lavoro che rende gli occhi sordi al punto da non riconoscere nemmeno se stessa. Nella casetta di plastica nel parcheggio un’altra donna, Domenica, vive da barbona ma senza chiedere l’elemosina, nutrendosi degli alimenti che il supermercato non può̀ più̀ vendere a causa della scadenza troppo vicina o della confezione rovinata. Poco importa se dal barattolo senza etichetta messo a scaldare sul pentolino non escono fagioli ma pesche sciroppate, a Domenica non manca nulla. È innamorata di Said, Said che è venuto dall’Africa e che le ha promesso una bicicletta, Said che non beve mai tranne il sabato perché il giorno dopo il magazzino dove lavora è chiuso, Said che ogni sera va da Domenica tranne il sabato perché va nel bar dove ci sono le slot machines, Said che balla il twist inserendo i gettoni nella apposita fessura, quasi una danza rituale – come quella degli indiani Pueblo per chiamare gli antenati dal cielo alla terra sotto forma di gocce d’acqua – ma la pioggia non cade mai su Said.
Di questi, come degli altri personaggi (la barista, la poliziotta, lo zingaro, il fesso con il portafogli straripante di banconote, la signora del mercato che vende mandarini), Celestini fa un racconto-fiume scandito da mulinelli, in parte profondi e in parte solo di superficie, alcuni dei quali si danno una volta sola mentre tanti altri riemergono più e più volte. Virtuosistico e forse per questo meno efficace di quanto potrebbe, “Pueblo” offre al pubblico un grande affresco di umanità delle periferie, un affresco che, prendendo a prestito le parole del filosofo Gilles Deleuze, non potremmo che definire barocco in quanto la linea della narrazione è continuamente, irrimediabilmente “piegata, dispiegata, ripiegata”. Fino al limite, è questo il rischio, di sacrificare il racconto allo stile di narrazione, auto-confinandosi tra le parentesi di ciò che lascia il tempo che trova.
Pier Paolo Chini
Foto di Piero Tauro