“Più a Est di Radi Kurkk” di Gianluca Di Dio
Definito da molti come una “favola metafisica”, come una fantasia buzzatiana, “Più a Est di Radi Kurkk” (Voland, Collana Intrecci, 2019, pp. 112, euro 15) è un atipico romanzo del parmense Gianluca Di Dio.
Lucio, il protagonista, resta orfano dei genitori, di tutta la famiglia, morta in un incidente stradale e, da un giorno all’altro, si ritrova solo al mondo. In piena confusione psicologica, forse convinto che per lui ci sia una missione da compiere, un giorno affoga anche il suo gatto nella vasca da bagno e lo appende al ramo di un albero, come bandiera che segni il proprio possedimento del dolore. Lucio conduce la sua vita nell’abbandono, nella sua casa in cui si accumula roba e in cui camminare diventa a volte una scalata, a volte un percorso metaforico. Lucio vive nel paesino di Luz, sulla riva di un grande fiume che minaccia di esondare (forse questo uno dei richiami diretti a Buzzati, per la precisione a “Eppure battono alla porta”?). Durante i suoi viaggi nel discount lì vicino, incontra uno strano personaggio, il dottor Cervellati, dentista e unico medico del paese. Lucio lo scopre a taccheggiare, diventando suo complice, come in una prova di coraggio o iniziazione spirituale che prevederà anche la violenta estrazione di un dente. Il dottor Cervellati consegnerà a Lucio un manoscritto del padre, un lungo racconto intitolato, appunto, Più a est di Radi Kurkk, immaginario luogo verso il quale giunge il protagonista del racconto, il neanche troppo celato padre di Lucio, il quale sa di non poterlo più abbandonare. Un Est immaginifico, un est come speranza di un’impresa umana ma forse ancora più grande dell’umanità stessa, che si sta costruendo. E mentre la pioggia nel paesino di Luz sembra non smettere di scendere, minacciando la popolazione, Lucio incontra una commessa del discount molto particolare, scopre la presenza di strani uccelli, le sigulde, descritte nel racconto del padre. Ci avviamo verso un finale apocalittico, appunto rivelatore, metaforico, richiamato sin dall’inizio dai deliri del protagonista.
Gianluca Di Dio costruisce una storia breve, ma densa di significati palesi e celati dal simbolismo. Una storia di morte e rinascita, che dal personale diventa universale. È il mondo a dover affrontare una nuova rinascita, oppure è Lucio che è messo di fronte alla suo nuova vita post trauma? “È questa la mia missione, vero?” […] salvare qualcosa, anche piccola, anche impercettibile, ma qualcosa”. Nell’acqua che esonda, liquido uterino da cui tutti rinasce, si prende coscienza di sé, della propria anima, della propria origine. Gianluca Di Dio utilizza tutti questi elementi in uno stile che, come dicevamo all’inizio, ci guida in una favola metafisica, sospesi tra la fantasia e la realtà, in cui un racconto all’interno del racconto guida il protagonista e il lettore verso il finale rivelatore. Possiamo definire riuscito l’esperimento? Il pericolo del fallimento è concreto: difficile utilizzare il grottesco, o in generale il fantastico, senza rischio di annegare. Se le pagine del racconto del padre di Lucio, infatti, sembrano costruite con uno stile più controllato, seppur alle prese con personaggi e animali “fantastici”, il resto del romanzo rischia più volte d’essere un buco nell’acqua. Pensiamo, ad esempio, al primo capitolo, in cui l’autore cattura la nostra attenzione con situazioni e immagini certo particolari, ma forse fuori centro a causa di una percepita volontà di dover per forza stupire. Essere grotteschi non significa dover per forza essere stucchevoli, che è il rischio in cui cade spesso Di Dio. Al netto di questi dubbi, la lettura risulta piacevole e angosciante specialmente nella lunga minaccia dell’allagamento, in una terra in cui tutto potrà essere sommerso, tranne, ci lascia capire Di Dio, la speranza.
Giovanni Canadè