“Pink Tank” – Nel libro di Serena Marchi le donne prendono la parola per parlare di potere
Si definisce think tank “un organismo, un istituto, una società o un gruppo, tendenzialmente indipendente dalle forze politiche (anche se non mancano think tank governativi), che si occupa di analisi delle politiche pubbliche e quindi nei settori che vanno dalla politica sociale alla strategia politica”, ma tank in inglese vale anche carro armato. E in effetti, quello che Serena Marchi fa nel suo “Pink tank” per Fandango Libri (2019, pp. 204, euro 16), è una sintesi di entrambi i significati. Nell’equazione banale tra rosa e femminile, un inciampo pienamente perdonabile data la provata consapevolezza e l’accurata lotta agli stereotipi che l’autrice porta avanti da diverso tempo, dà voce a gruppo trasversale alle forze politiche, da Fratelli d’Italia a Liberi e Uguali, per riflettere sul rapporto che oggi, in Italia, lega (legherebbe, dovrebbe legare?) donne e potere, nella sua accezione politica. A esprimersi sono le donne che si sono già fatte carrarmato, abbattendo il soffitto di cristallo che voleva le donne inadatte a prendere decisioni per il bene comune, fino a meno tempo fa di quanto ci piaccia ammettere.
Ed è anche – e forse soprattutto – quello che le donne pensano di se stesse, che Marchi fa dire alle sue protagoniste. Lo fa recuperando la funzione e il ruolo del (della) giornalista come dovrebbe essere e spesso non è più, capace di fare un passo indietro e lasciare la parola alla persona cui s’accosta senza sostituirsi mai, senza far sentire la propria voce sopra o dentro quella altrui, ma anche non facendosi prendere dalla timidezza o dall’eccesso di trasparenza rifiutando di incalzare l’interlocutrice quando occorre. A parlare sono tante, se non tutte. Quasi tutte sono state contattate, e Marchi da conto di risposte mancate dinieghi e lunghe attese facendo nomi e cognomi. A questa selezione subita o scelta sono “sopravvissute” in diciotto, e per tutte il canovaccio è identico. Dalla propria storia si passa a una riflessione sulle donne e il potere e la politica, finendo inevitabilmente a riflettere sulle cosiddette “quote rosa”.
Nel ventaglio di figure con cui Serena Marchi si confronta ci sono storie per molti versi agli antipodi. C’è chi fa politica da sempre e chi da una manciata di anni, c’è la più giovane a sedere tra i banchi del Parlamento e l’ex deputata novantenne, ci sono donne di sinistra e di estrema destra, ministre, presidenti ed ex presidenti della Camera, ma anche chi arriva dalle amministrazioni locali, chi – alla condizione in cui si trova – è arrivata e si è rapportata osando e chi inanellando rifiuti.
Il potere delle donne ha molti volti e modi di esprimersi, ed è vero che – come suggerisce la stessa autrice nelle prime pagine, avviene spesso di non riuscire a identificare (immaginando di nasconderne il nome) le appartenenze partitiche di chi parla. Ciò che stupisce di più, dell’attento e accurato lavoro di Serena Marchi, non sono però le dichiarazioni meramente politiche. Il saggio è senz’altro un utile, attento, completo e non banale approccio al tema per chi non si sia finora chiesto davvero a che punto siamo sul fronte della rappresentatività politica delle donne, ma non è certo inedito per chi già si occupi del tema sentirsi ripetere che c’è ancora molta strada da fare o fare il punto sul dibattito mai sopito sull’opportunità delle quote di genere, ghetto per qualcuna, inevitabili per altre, passaggio più o meno obbligato per altre ancora. Che le donne che esercitano una leadership riconosciuta in Italia siano poche è un dato evidente dai numeri, e bene fa Marchi a ricordarlo spesso. Del resto, anche su ciò che significa leadership tra le donne interpellate i punti di vista sono talvolta antitetici (e spesso, ma non necessariamente, coerenti col posizionamento politico). A seconda di chi si esprime leadership significa carisma, capacità di convincere, abilità nel circondarsi di intelligenze pronte e punti di vista difformi giovando del confronto. Ciò che rende però particolarmente prezioso, riuscito e, va detto, non di rado sorprendente il contenuto di Pink Tank è ciò ch e emerge quando alle intervistate si domanda il perché, dell’assenza di leadership al femminile in Italia, se si fa l’eccezione, tra i segretari di partito (e anche questo potrebbe sorprendere) di quello che è verosimilmente il partito più conservatori dell’arco costituzionale. Inevitabile rintracciare, indipendentemente dallo schieramento politico, la radice nel maschilismo e nel sessismo di cui il Paese, anche quando si vuole progressista, è profondamente intriso, e sull’esigenza di combatterlo, pur se le soluzioni proposte sono differenti. È unanime il riconoscimento del profondo problema cultuale, che agli uomini offre leadership come una “cambiale in bianco” mentre alle donne impone quella che Michela Murgia ha chiamato la Sindrome di Ginger Rogers: fare quello che faceva Fred Astaire, ma all’indietro e sui tacchi. Che “le donne sono macinate dal sistema. Il meccanismo è maschile, l’intera società è organizzata per i maschi, la nostra lingua è maschile. Anche il nostro assetto giuridico è basato sul maschio seppur venga spacciato per neutro”.
Quando si chiede alle donne di riflettere sul da farsi, al netto di qualche inevitabile stereotipo e generalizzazioni (“una donna, se vuole esserlo fino in fondo, deve misurarsi col proprio potenziale materno”, “le donne non sanno fare squadra”, “le donne sono naturalmente accudenti”), si incappa però anche in riflessioni che spostano lo sguardo da quello che le donne hanno subito – una realtà storica, da non minimizzare né dimenticare – , da quello che alle donne il maschile non ha concesso, verso non quello che le donne devono chiedere, ma al modo in cui sono chiamate ad agire. “Nel nostro Paese non è una questione di leadership ma di potere. Il potere genera una grande dipendenza. Chi ce l’ha non lo molla. […] Il potere non è né brutto né bello. Dipende da come lo si usa. Per usarlo, però, bisogna averlo. E bisogna dirselo” Perché “il potere è l’unica cosa che serve per fare le cose. Dove il termine potere deve essere possum”. Posso. So. Ma bisogna non fermarsi lì. “Bisogna sì dirsi io valgo, ma bisogna accompagnarlo da “pertanto non mi scoraggio, tengo duro e vado avanti. Pretendo i miei spazi e mi invento, se serve, dei ruoli nuovi”.
Tutte i virgolettati riportati sono stati tratti da donne di posizioni politiche antitetiche: non a caso mancano i nomi: al lettore il compito di rintracciarle. La certezza che emerge dalle pagine di Serena Marchi è che il primo passo per qualsiasi conquista non può che essere la consapevolezza. E – purtroppo – non è (ancora) un’ovvietà.
Chiara Palumbo