Pier Luigi Pizzi porta il delirio mistico di “Violanta” al Teatro Regio di Torino: una prima storica
Erich Wolfgang Korngold (1897 – 1957) è stato un compositore austriaco naturalizzato statunitense, un autore brillante ed eclettico: la sua ricerca spaziava tra le arti con una naturalezza rara, e infatti non si occupò solo di musiche orchestrali, ma anche di musiche da camera, opere liriche e colonne sonore cinematografiche. Lavorò molto a Hollywood e vinse anche due Oscar alla fine degli anni Trenta. Delle cinque opere liriche da lui create, la più celebrata fu sicuramente Die tote Stadt, basata su Bruges la Morte del belga Georges Rodenbach, una storia simbolista, macabra e straziante. Però quattro anni prima, nel 1916, Korngold aveva presentato all’Hoftheater di Monaco di Baviera un’altra opera, intitolata Violanta. Aveva solo diciassette anni quando la scrisse, e già questo lascia presagire molto del personaggio col quale abbiamo a che fare. Il libretto, scritto da Hans Müller-Einigen, riporta la vicenda di una nobile veneziana del XV° secolo – Violanta, appunto – moglie di Simone Trovai, un comandante militare della repubblica. È la notte di carnevale, e Simone non trova la sua consorte in casa. È preoccupato, sa che Violanta non è più la stessa da quando sua sorella Nerina è stata sedotta da Alfonso, il figlio illegittimo del re di Napoli: Nerina era una novizia, e per la vergogna e la disperazione si è annegata. Violanta brama la vendetta e sa che col carnevale tutta la città si riversa nei canali, e dunque ci sarà anche Alfonso. Così lo trova e lo invita a casa sua. Violanta lo precede e rincasa prima di lui, per spiegare al marito che, una volta arrivato Alfonso, bisognerà ucciderlo. Ma gli eventi prenderanno una piega ben diversa…
Il Teatro Regio di Torino, il cui cartellone rivela sempre sorprese gradevolissime, ha scelto di inserire nella stagione ben cinque repliche di Violanta, da martedì 21 gennaio al martedì successivo, in concomitanza dunque con Il matrimonio segreto. E non si tratta solo di un nuovo allestimento, ma della prima esecuzione italiana di quest’opera. Una scelta audace, quella del direttore artistico Schwarz, perché non si tratta di un titolo o di un compositore particolarmente noti, soprattutto se si considera che lo scenario nazionale abbonda nel proporre sempre gli stessi nomi. Anche qui, comunque, come per Il matrimonio segreto, vale la logica per la quale è la regia a farsi garante del successo: Pier Luigi Pizzi, che ha curato anche la messinscena di Cimarosa, si conferma un eccellente allestitore estetico, un superbo coordinatore dei contenuti, qui declinati davvero egregiamente. Quel che in primis colpisce, ancora una volta, è la scenografia: un ampissimo interno di velluto rosso, un divano scarlatto a destra, un drappo e un banchetto a sinistra e, sullo sfondo, un’enorme finestra circolare che volge verso il buio e verso l’acqua delle calli dove passano le gondole. Inappuntabili i costumi che, nonostante il voluto anacronismo, riescono a trasmettere tutta la decadenza dello sfarzo fine a se stesso: sembra di stare più che altro negli Anni Venti, in un salotto dannunziano, se non addirittura huysmaniano. Una resa, quella di Pizzi, che celebra il lato più oscuro e triste della trama: in questa versione di Violanta non c’è spazio per nessuna grandeur, il dramma palpita in modo ovattato, ma è così forte e vibrante che ci si sente sempre sul punto di svenire, come se una ignota giustizia poetica ci raccomandasse con veemenza di assopirci e appassire tutti insieme, personaggi e astanti. E con questa regia Venezia diventa un luogo della mente, un mondo statico di idee appoggiate, dove il Carnevale è lontano non solo perché siamo alla Giudecca, ma anche perché la nebbia di un sogno minaccioso avvolge tutto nelle spirali di delirio che poi animeranno la stessa Violanta. Geniali, in questo senso, anche le luci di Andrea Anfossi, che come sempre ha saputo alterare il senso della realtà, attraverso un gioco di buio e soffusione impeccabili.
Musicalmente, alla prima tutto è filato liscio. Le note gravi e grevi di Korngold hanno potuto trovare nel maestro Pinchas Steinberg un buon direttore, nonostante alcune occasionali esuberanze che adombravano le voci dei cantanti lungo i ritorni dei versi ripetuti. Ogni interprete ha poi regalato al pubblico una voce magica, spesso tremula come la formula di un incantesimo sussurrato: nessun cantante si imponeva con la forza del suono, ma tutti frusciavano ammaliatori quasi l’obiettivo fosse ipnotizzare, più che raccontare o cantare. Annemarie Kremer, la soprano che ha impersonato la protagonista, era semplicemente mistica; aleggiava come una creatura maliarda e rapiva con la grazia funesta delle sue corde vocali. Si sono distinti poi per bravura Michael Kupfer-Radecky (Simone Trovai), Norman Reinhardt (Alfonso) e Peter Sonn (Giovanni Bracca). Una menzione e un applauso, infine, per Soula Parassidis, Anna Maria Chiuri, Joan Folqué, Cristiano Olivieri, Gabriel Alexander Wernick, Eugenia Braynova, Claudia De Pian.
Davide Maria Azzarello