“Pagliacci all’uscita” ovvero libere visioni in concerto poetico
L’arte di Roberto Latini non è semplice adorazione delle ceneri, non è nemmeno comoda o rassicurante. Ogni suo lavoro costringe a rimettersi in discussione, a cimentarsi con le contraddizioni del fare teatro, a confrontarsi con quanto avviene sulla scena con uno sguardo diverso, nuovo. La biografia di un artista così eclettico è anche una chiara testimonianza del mestiere dell’attore, un lavoro per niente alienante, ma una vocazione a dire quello che si è con rigore estremo fino a inscenare la propria realtà, facendo valere con una certa tensione morale le parole che si hanno. È questo il prezioso lascito consegnatoli dalla sua maestra Perla Peragallo, una belva da palcoscenico, nota negli anni Sessanta- Settanta per il sodalizio artistico con un altro gigante del teatro, Leo de Berardinis.
Come si evince dalle note di regia, “Pagliacci all’uscita”, in scena al Teatro Vascello di Roma dal 29 settembre all’8 ottobre, sorge da un tentativo rischioso e al contempo innovativo di accostare due testi apparentemente lontani tra loro per stile e contenuto, eppure profondamente in sintonia. Pagliacci, dal libretto dell’opera di Ruggero Leoncavallo, debuttato a Milano nel 1892 e All’uscita, l’atto unico che Pirandello definisce “mistero profano” andato in scena al Teatro Argentina di Roma con la Compagnia Lamberto Picasso nel 1922. Il primo è immerso nel verismo di fine ‘800, in un sud di sole e coltello, il secondo è una parabola metafisica. Mentre il sipario scorre lento, si dischiude alla nostra vista uno spazio zenitale, sublime, raffinato, segnato da linee e da traiettorie secondo una vera e propria operazione di magia. Gli occhi scivolano su un palchetto ricreato ad hoc su cui si stende un tappeto d’acqua, seguono poi le lucine in fila accampate come lucciole sotto un praticabile nero che ospiterà a breve la compagnia, in un’atmosfera incantevole, da chiaro di luna.
In questo straniante viaggio nel metateatrale ritroviamo Marcello Sambati, Ilaria Drago, Elena Bucci e Savino Paparella, galleria di attori eccelsi per i quali il teatro di ricerca è stato ed è viva sostanza. A fare il suo ingresso è Tonio in costume da Taddeo (Ilaria Drago), asino che invola parole sul pubblico mettendole in piroetta, mentre il suo raglio suscita riso e tenerezza. Inscena il prologo di Pagliacci con il corpo ora dinoccolato ora intento a tirar calci più della parola, ma sempre mosso dalla volontà di raccontare nidi di memorie, di spasimi e lagrime. La Drago è una macchina di scoperta incredibile che con la sua mobilità e la notevole estensione vocale macina e rivela. Passionale e grintosa, in lei le battute riaffiorano staccandosi dal testo, le personalizza facendole diventare sintassi sonora, materiale magmatico che ribolle e trascende.
Se nel suo libretto Leoncavallo gioca con i vari piani narrativi, la realtà (quella degli spettatori che vedono l’Opera), il teatro (l’Opera Pagliacci), e il teatro nel teatro (la pantomima di Arlecchino e Colombina preparata dai personaggi in quanto attori), Latini ricorre alla forza delle parole, più che a quella dei ruoli, ad un concerto di visioni sotto il segno di una drammaturgia delle temperature che mescola farsa e tragedia. Il sentire scenico emerge nella sua totale indefinizione, non si rappresenta alcun personaggio, si stratificano semmai presenze. Ciascun attore è un quadro vivente, campo magnetico che fa leva sulla propria ricerca linguistica, smontando e disorganizzando la frase, sfruttando gli accenti per reinventarsi di continuo come fa Canio, a cui presta la propria voce Savino Paparella, abilissimo acrobata nell’alternare il testo ai dialetti pugliese e calabrese, mentre avverte il pubblico che finzione e realtà non sono la stessa cosa, per poi essere amaramente smentito, fino a quando i sentimenti veri getteranno via la maschera (No, Pagliaccio non son!) e la commedia sarà declassata dalla tragedia e dal duplice omicidio.
Sommi vertici sono quelli raggiunti da Marcello Sambati che per movimento e parola si fa sintesi poetica. Immenso nella recita dell’aria Vesti la giubba, il suo svuotarsi, il suo apparire e scomparire è ieratico come quello di uno sciamano, costantemente abbracciato a un’idea alta di neutralità che lo porta a instaurare un canale diretto, intimo e viscerale con lo spettatore. Prendendo in prestito un’espressione di Tommaso Landolfi, a Sambati si addice il ‘decoro del silenzio’, anche se la stampella-microfono che lo accompagna sul palco traduce il suo costante cercare parole perdonate, parole lievi o in mancamento che salvino il dire e l’ascoltare. Oltre all’accuratezza dei costumi ottocenteschi (Rossana Gea Cavallo) colpisce l’uso della mezza maschera della commedia dell’arte, uno strumento di lavoro eccezionale in grado di attivare e potenziare altri centri di risonanza, come l’emissione vocale o l’espressività della testa.
La seconda parte dell’opera si concentra sulla meditazione della morte. Latini resta fedele al testo pirandelliano, ma ne rinnova la resa stilistica a partire dalla scenografia che vede ora disposte l’una accanto all’altra delle teche a dimensione di bara colme d’acqua, sui cui bordi gli artisti poggiano come bambini seduti alle fonti. Se prima il taglio della luce (Max Mugnai) cadeva morbido sui volti, ora il buio è squarciato da fulminee accensioni che rievocano il sinistro clima cimiteriale. Si assiste all’incontro tra defunti, apparenze le chiama Pirandello, ancora attaccate in qualche modo alla vita dall’ansia di esaudire un desiderio. Se in alcuni punti la resa del dialogo tra l’uomo grasso e il filosofo capelluto appare ostile, non basta tuttavia a disperdere l’efficacia delle parole, soprattutto quando il filosofo (Ilaria Drago) descrive le sfaccettature dell’animo umano capace sia del bene, quando “si porge in adorazione del mistero divino’, sia di basse fragilità considerandone ‘la labile forma su questo volubile granello che è la terra”. Degna di lode la performance di Elena Bucci nella figura della moglie adultera la cui risata “da pazza” balza addosso e inchioda lo spettatore alla sedia. In Elena tecnica e conoscenza costituiscono la tara pregiata della sua essenza d’artista. Gli schizzi d’acqua che la donna si getta addosso con gesti quasi convulsi sembrano rimandare a quelli di sangue del suo femminicidio, tematica questa affrontata senza alcun tipo di moralismo, ma affidata allo spettatore come traccia che possa produrre un’idea che sia coscienza critica. Sul finale, quando rintoccano di tanto in tanto le note di Ridi Pagliaccio, (musiche a cura di Gianluca Misiti) vediamo i corpi degli attori abbandonarsi all’acqua nelle teche, luoghi ora dell’assenza o dell’ubiquità, mentre galleggiano come figuralità fantasmagoriche, sussulti di esistenza.
A Latini va riconosciuto il merito di forza ispiratrice e aggregante in grado di creare la giusta osmosi tra autori-attori di enorme caratura, in particolare gli va dato atto della scelta audace di tenersi lontano da un circuito omologato che oggi più che mai considera il teatro un mezzo dell’organizzazione anziché motore di ricerca e di sperimentazione. La sua operatività teatrale genera una tensione a conoscersi, a porsi di fronte all’enigma, a stimolare lo spettatore nel dare all’evento teatrale il senso che più lo aiuta a ri-vedersi. E soprattutto è un teatro il suo che crede ancora nel potere dell’immaginazione.
Diana Morea