Pablo Solari: L’entusiasmo di un tredicenne senza paura che scommette ogni volta su se stesso
“Il mio spettatore medio è uno con cui potrei andare a giocare a calcetto” Pablo Solari
In occasione del ritorno dello spettacolo “L’indifferenza” al Teatro i di Milano, dopo il grande successo dello scorso anno, abbiamo incontrato Pablo Solari, autore del testo e regista, per farci raccontare qualcosa in più sullo spettacolo e sui suoi progetti. Pablo è un artista a tutto tondo, ha 30 anni, tanta passione e cultura, e le sue risposte nutrono appieno i sottoscritti intervistatori.
R.U.: Come è nato il testo “L’indifferenza”?
Quando ho cominciato a scrivere era estate e avevo voglia di capire se potevo scrivere un testo mio e ho cominciato a scrivere la prima scena, di botto. In realtà la cosa è nata da un film di Bergman, “La prigione”, in cui c’era questo insegnante diventato regista che tornava a casa e un suo studente gli dice “ho fatto un sogno, di un film che devi girare, un sogno in cui il diavolo ha vinto” e mi ha molto affascinato, unendo il fatto che avevo iniziato a leggere l’Antico Testamento. La prima fase è stata quindi lo studio di certe figure artistiche che mi interessavano, dopodiché, dopo la prima scena, è subentrata una tematica, che è un libro, “La mia guerra all’indifferenza” di Jean-Sélim Kanaan, un ragazzo morto giovane durante l’attentato a Baghdad alla sede delle Nazioni Unite, scritto di getto guardando la caduta delle torri gemelle di New York. Poi c’è stato, lo stesso anno, l’attentato al Bataclan di Parigi, e ho pensato che qualche mese prima avevo visto il gruppo in scena quella sera, Eagles of Death Metal, a Milano: mi sono sentito quindi estremamente coinvolto, ho avuto la sensazione di dire “guardati allo specchio” e capire che il corpo poteva essere trafitto da qualcosa da un momento all’altro. Sentirsi fragile, sapere che oltre alla parte razionale c’è una parte vitale che può essere devastata da un momento all’altro. Questa è stata la genesi. Un’altra cosa che si collega è la prima apparizione del diavolo nel deserto nell’Antico Testamento e la parola ebraica tikun (= riparare il mondo), che dopo l’olocausto ha assunto un significato diverso. Poi ho studiato i conflitti tra Israele e Palestina, le tecniche di combattimento dei soldati israeliani, che hanno imparato a sopravvivere nel deserto, facendo svariati collegamenti. Il titolo è arrivato molto molto dopo, è stata un’operazione che si è conclusa grazie al lavoro con gli attori.
A.B.: Ok, facciamo un passo indietro e rivolgiamoci a chi già conosce e apprezza le tue Regie. A me è rimasto molto impresso, ad esempio, il tuo esordio (La Puta Vida), che ho avuto la fortuna di vedere anni fa in un minuscolo Spazio della Paolo Grassi di Milano. Cosa c’è in comune, e cosa distingue invece secondo te questo nuovo spettacolo, “L’indifferenza”, dai tuoi precedenti lavori?
“La Puta Vida” era un lavoro estremamente immaturo che si basava su un’unica cosa: che eravamo delle “teste di c…” e si basava su un testo di Reinaldo Povod che io avevo tradotto (male). Devi pensare che “ragazzo delle strade” l’avevo tradotto con “ragazzo di collina” solo perché mi piaceva di più. Tutto veniva fatto all’insegna dell’anarchia più totale, con attori totalmente anarchici. Ogni volta erano veramente “coltelli” prima di andare in scena. Ma ci volevamo un bene enorme, per quanto il livello di testosterone fosse esagerato. La cosa che più piaceva era che nello spettacolo si parlava davvero di fame, di povertà, di quanti sacrifici si è disposti a fare. C’era addirittura un personaggio, un ragazzo, che davanti al peggiore degli esseri umani diceva “io sono così disperato che sono disposto a donarti tutti i miei organi, quindi uccidimi”. Era qualcosa di estremo. Pensa che c’era un attore, Simone Coppo, che in un monologo diceva “Voglio vivere perché non mi rimane nient’altro, io mi sacrifico”. A questo punto lui cominciava a piangere, Valentino Mannias che era in scena con lui cominciava anche lui a piangere, insomma tutti a piangere. Daniele Nutolo si faceva due ore chiuso in una stanzetta guardando la foto di sua nonna per riuscire a entrare piangendo disperato… Un gruppo di pazzi scatenati! Quello che mi piace fare, e che adesso cerco sempre anche nella scrittura, è trovare una finzione così forte che alla fine si riesce a scavare qualcosa di intimo nell’attore e nello spettatore. All’inizio devi far stare il pubblico in una cosa comoda, diciamo in una vasca idromassaggio. Quella calma però deve poi essere focalizzata perché si cammina “sul filo”, come funamboli tra i grattacieli. Devi arrivare a dire: “siamo in due, vediamo chi fa cadere l’altro” oppure invece “non dobbiamo far cadere l’altro”. Dobbiamo arrivare fino in fondo. È una grande scommessa. È difficilissimo, perché ogni replica è diversa dall’altra. L’attore ha degli appoggi tecnici ma io in questo spettacolo gli chiedo di stare invece molto su sé stesso. Se i primi lavori erano più immaturi, più “punk”, questo è più pulito, anche nel linguaggio. Ma la scommessa è la stessa. Ultimamente guardo molto al cinema americano e a un certo stile recitativo, ma ciò a cui più tengo davvero è lo spettatore. Dico sempre che il mio spettatore medio è uno con cui potrei andare a giocare a calcetto.
R.U.: Lo spettacolo appare come una sorta di parabola moderna, in cui il male c’è e nonostante tutto, non muore, è necessario alla vita… che messaggio vuol dare lo spettacolo?
Non so dire se c’è un messaggio, non è uno spettacolo che lavora con la razionalità. Almeno, parte in questo modo, ma mi interessa mischiare apollineo e dionisiaco, quindi non è un messaggio razionale A+B = C, sicuramente so che una grossa riflessione mia in questo spettacolo è questa, su me stesso, con gli attori, è una riflessione che ho fatto su me stesso su cosa c’è oltre la nostra superficie: quindi potrebbe essere l’anima, gli organi, il sangue, o appunto il diavolo, e per me è fondamentale, rifletto spesso su me stesso e la mia parte interna di male, che è enorme e che si porta di generazione in generazione, nel DNA, come la parte cristiana. Il male esiste e in certe persone è presentissimo, ma anche il bene esiste, c’è un confronto assoluto e cerco di viverlo. Non passa attraverso il condizionamento psicologico, passa più attraverso il guardarsi negli occhi e dirsi “allora dimmi una bugia, dimmene un’altra e un’altra ancora” e capire cosa c’è in fondo a quelle bugie. L’unica maniera per arrivare alla verità è costruire così tante menzogne così da diventare verità. I personaggi mentono continuamente e il gioco col pubblico è far credere a quello che dicono, per poi far capire che erano tutte bugie.
A.B.: Per chi invece non ti conosce ancora: cosa contraddistingue le scelte registiche e drammaturgiche di Pablo Solari?
È una cosa che sono riuscito a definire da poco, diciamo da un paio d’anni. Nel senso che io collaboro con tantissimi artisti diversi, per cose diversissime, compreso, ad esempio, il teatro per ragazzi (con Andrea Delfino) oppure uno spettacolo su Copernico insieme a Rocco Gaudenzi, persona di una cultura superiore, con cui abbiamo fatto addirittura dei dialoghi sulla fisica! E ancora, “Carapace” con Roy Paci. Io per tanti motivi tengo a tutti questi progetti, per quanto siano completamente diversi tra loro. Ho anche scritto un mio testo, che non so ancora quando farò. Non so se posso rivelarlo, ma parla di uno studente di architettura che decide di scrivere una tesi sull’architettura dei campi di concentramento; il suo relatore gli dice “sei il migliore allievo che io abbia mai avuto, ma devi togliere il Mein Kampf dalla bibliografia”. Lui si rifiuta di scendere a questo compromesso, perché è scendendo a compromessi che la generazione precedente si è corrotta per sempre. Il dilemma in questo caso è tra fascismo e vocazione. Di ogni progetto mi interessa la scommessa, il non sapere.
R.U.: Qual è la tua genesi e quali sono i tuoi prossimi progetti?
Mio padre è regista e anche mia madre lo è, mio nonno era un artista molto famoso in Perù, mia nonna è organizzatrice teatrale in Perù, mia zia è regista: ho una storia artistica che ho rinnegato fino a 20 anni, quando mi sono detto che invece mi interessava molto, anche se di riflesso. Non mi importa di dire “tra due anni smetto”, quando ho la fortuna di avere intorno a me collaboratori che stimo tantissimo che mi stimolano continuamente a fare progetti, come ad es. “Contenuti Zero”, una follia profondissima. Ho tanti amici nel mondo della musica e magari un giorno mi metterò a fare il discografico perché mi piace. Parlo molto con il service ai concerti, ho tanti ambiti che mi interessano, l’evento dal vivo mi ha sempre affascinato, anche solo l’idea del basso che vibra, che fa vibrare la cassa toracica, è quella roba lì, anche a teatro. Una cosa che dico sempre a me e agli altri è “fare teatro deve essere sempre come la prima volta”, avere sempre la voglia di fare. In Italia ci sono tantissimi artisti incredibili che noi italiani sottovalutiamo, il teatro e la musica nostrani sono a livelli altissimi, sia come formazione sia come ricerca artistica. Un progetto futuro che posso citarti è “Contenuti Zero” (Patate, riso e cozze sono i titoli degli spettacoli che faremo al Teatro Fontana, che saranno “la morte definitiva del varietà, che verrà seppellito da un pescatore di polpi pugliese”) e poi altre cose che presto vedrete, collaborazioni bellissime di cui sono molto contento.
A.B.: Pensando a me, spettatore che sta per vedere “L’Indifferenza”: dammi una ragione per cui questo spettacolo non mi lascerà indifferente.
In generale, quando uno spettacolo, e ce ne sono tanti, è ben scritto, ben diretto e con bravi attori, non c’è pericolo che possa lasciare indifferenti. Al contrario, quando chi fa uno spettacolo guarda lo spettatore dall’alto in basso, questo dà fastidio e non funziona. Poi, a qualcuno lo spettacolo farà sorgere dei dubbi e delle riflessioni, mentre altri magari non lo capiranno, ma va bene così. La “sfida al presente” del Teatro non può comunque mai lasciare indifferenti. Magari ti rompi le scatole, ma non rimani indifferente. Qualcosa impari sempre. Anche recentemente, ad esempio vedendo “Lo zoo di vetro” di Leonardo Lidi, mi è capitato di capire che ho ancora tantissimo da imparare. In Italia ci sono tantissimi bravi registi che con semplicità riescono a fare grandissime cose. Il Teatro ha una sua specificità. Mi arrabbio molto quando sento qualcuno paragonarlo alle Serie Tv, al Cinema o altro. È sbagliato. Si fa Teatro perché si vuole andare fino in fondo a qualcosa di rarissimo e meraviglioso, estremamente contemporaneo.
A cura di R. Usardi e A. Bizzotto