“Ovvi destini” – Intervista a Filippo Gili
È in questi giorni in scena al Brancaccino di Roma, dove resterà fino al 20 aprile – “Ovvi Destini” di Filippo Gili che ancora una volta, drammaturgo e regista, ci mette di fronte a una situazione assurda, cervellotica e pungente. Ci mette davanti a noi stessi, davanti al nostro inconscio e alle nostre scelte. Sul palcoscenico un cast ben incastonato in ogni angolo e in ogni ruolo. Vanessa Scalera, Piergiorgio Bellocchio, Daniela Marra e Anna Ferzetti ci raccontano un dramma familiare: tre sorelle di cui una paraplegica a causa di un incidente provocato, forse e inconsapevolmente, da una delle sue stesse sorelle. Ma arriverà qualcuno a fare luce su questa colpa tenuta nascosta e tutto capitombolerà, facendo pagare al colpevole la perversità tra causa e colpa, il contatto tra inconscio infantile e realtà. Leggiamo ora cosa ci racconta Filippo Gili.
Filippo, da dove nasce l’idea di “Ovvi destini”?
Le fonti ispirative di questo spettacolo sono due: “Stalker” di Tarkovskij e “Il crollo della Baliverna”, un meraviglioso racconto di Buzzati in cui si racconta di quest’uomo che va a fare una gita in un complesso post-industriale in rovina chiamato la Baliverna: una disavventura agghiacciante perché costui, in maniera ludica, spensierata, alacre, una volta dentro questo gigantesco ventre di ferro si appende a un asse in ferro che si spezza, e spezzandosi provocherà un tragico effetto a catena che farà crollare l’intero edificio addosso a venti sfollati. Il senso di colpa che ne consegue è agghiacciante, quest’uomo non sa se denunciarsi o meno: ma denunciare cosa? Un innocente salto? Questo mi ha affascinato del racconto, il rapporto fra il senso di colpa e colpa, qui acceso nel suo totale paradosso.
Cosa è il destino? E cosa può essere considerato ovvio in queste nostre esistenze?
Il destino è ovvio fin quando non ha la sfortuna di incontrare un evento, un incidente straordinario. Finché non accade la straordinarietà il destino è ovvio. Vedo in qualche modo ovvio e commovente il rapporto che l’umano ha con l’illusione della libertà, l’estetica del libero arbitrio, non rendendosi conto che, il più delle volte, il libero arbitrio si apre nel paradosso – anche qui – del suo incontro con una tragedia, un disastro, una calamità: circostanze umane che eroizzano – o anti-eroizzano – un quotidiano diversamente annaspante nel medio. Come il quotidiano di “Prima di andar via” che viene spazzato via da quel ‘domattina non sarò più vivo’ e che apre lo scenario – sparito – dell’ “addio fra vivi”. O la necessità di dover salvare la vita o al padre o alla madre in ‘Dall’alto di una fredda torre’. Ecco qui, forse, e, ripeto, paradossalmente, se la libertà è vista come solitudine di fronte al dolore, come libertà da una ‘modalità’ collettiva, culturale, consolidata nell’affrontarlo, la libertà si accende proprio davanti al tragico, al catastrofico, all’insostenibile.
Come diventa ‘teatro’ tutto questo?
Col viaggio di chi sposta oltre il sé in un altro sé, anche l’Io di un’epoca nell’Io di un’altra epoca: il mestiere dell’attore. Che è, come mi capita di dire spesso, un viaggio verso qualcosa che non sappiamo di noi, verso quel tipo di esperienza perduta davanti alle grandi categorie: la disgrazia, la rovina, la conquista, la sopraffazione, la carestia, il trionfo.
I personaggi sono quattro, di cui solo uno maschile. Per il personaggio interpretato da Giorgio Bellocchio a chi o cosa ti sei ispirato?
Nel romanzo cui si ispirò Tarkovskij, ‘Pic-nic sul ciglio della strada’, era una sfera dei desideri a catalizzare la tentazione di desiderare l’irrealizzabile. In ‘Stalker’ è diventata la stanza dei desideri. Nella mia elaborazione è un uomo, il fisiatra che cura le gambe della donna rimasta paraplegica per colpa dello sciagurato e innocente salto della sorella. Un personaggio che parte col perfetto crisma ibseniano del ricattatore, e che in realtà è una sorta di angelo laico, ma, se vogliamo tradurne in senso, una sorta di retaggio mistico dell’inconscio. Certo è che la sua ‘divinità’ non è cristiana, soteriologica, ma appunto laica: io il dono di realizzare l’irrealizzabile te lo faccio, poi se tu che decidi cosa e come…
Ci troviamo, quindi di fronte a un dramma e tu, questo dramma, ce lo poni spesso in un momento di serenità familiare. Perché?
Perché secondo me il Tragico deve partire dall’Ideale. Non a caso la tragedia greca parte sempre da presupposti paradigmatici, paradigmatici a livello sociale: non esiste la tragedia ‘popolare’. Ci ha provato Pasolini, con grandi risultati in ‘Accattone’, in altri meno (penso all’ ‘Edipo re’), ma insomma la tragedia è tanto più connotante, universale, simbolica e significativa quanto più è giocata a partire da livelli ‘ideali’. Il vero suicidio è dall’attico, non dal secondo piano. E la famiglia, non per vocazione elettiva ma per meccanica primaria del vivere, è il territorio ‘forgia’ del tragico.
Questo momento ideale è sempre intorno a una tavola, durante un pasto. Perché?
Ci ho pensato diverse volte… Non lo faccio apposta… Ma credo che il convivio sia quel cerchio che contenga alla perfezione la potenza di una bomba. Prima di esplodere nella tempesta, la quiete ha il sapore di cinguettii e sorrisi.
Vanessa Scalera, Anna Ferzetti, Daniela Marra, Piergiorgio Bellocchio. Quattro bravissimi attori. Qual è il tuo segreto da regista per trovare tre dimensioni forti e metterle d’accordo?
Io sono partito un po’ ronconiano. Non nella cifra espressiva – non ho mai fatto dire a un mio attore o a una mia attrice una battuta sconcretizzata – ma in una sorta di pelle ‘onnigestionale e governativa’, una protesi dell’Io che ha, però, mano a mano perso evidenza. Sono attore e so quanto all’attore giovi la sensazione della fiducia, della stima, quanto si sblocchi il suo agio se si sente ammirato, amato, stimato. Certo sta roba non si può bluffare, un attore o un’attrice devono avere talento, e tanto. Ma bisogna smussare la crisi, attendere che essa, in un attore, trovi il suo tempo di decongestione, non sotto la forca caudina dell’ansiocentrismo narciregistico. Certo è che questa volta, con ‘Ovvi destini’, sarà che ho più di cinquantanni, sarà che mi sono sempre più chiare le cose ovvie – tipo fidarsi, affidarsi, slegare, etc… – la mia disponibilità a creare un presupposto ‘lasco’ è notevolmente aumentata. Vanessa e Pier Giorgio sono due artisti che conosco da sempre, cui si sono aggiunti Anna e Daniela: l’alchimia tra questi quattro è stata così immediata che, dopo aver strutturato le fondamenta, ho mollato la corda. Ho capito che sarebbe stato un valore aggiunto per lo spettacolo, per loro stessi, per tutti noi.
Questi personaggi che hanno trovato in te il loro autore ti stanno ancora dicendo qualcosa? Cosa?
Più di altre volte avendo lasciato le dita libere della mano li guardo con grande fascino. Aggiungono cose ai personaggi, mi sorprendono, mi fanno diventare spettatore. Mi rendo conto che gli attori messi in connessione sono come una barca a vela. Se la metti col vento giusto va, e va benissimo. La bravura di un regista è conoscere il vento, mettere la vela nel modo giusto, e aspettare. Ogni tanto una botta di motore, ma solo ogni tanto se la barca si confonde… Sta di fatto che se li metti nell’angolazione giusta e sono bravi, gli attori vanno… e qui vanno veramente tanto bene…
Marianna Zito