Opera e cinema: il Teatro Regio di Torino apre la nuova stagione con una soggettiva su Manon
A ottobre il Teatro Regio di Torino ha riaperto il sipario per un’inaugurazione piuttosto inedita della nuova stagione operistica. Ha scelto di farla portando sul proprio palcoscenico il personaggio di Manon Lescaut, attraverso le note dei tre autori che attorno a lei, e ispirandosi al romanzo del 1731 Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Prévost, hanno costruito la propria opera: Daniel Auber (1856), Jules Massenet (1884) e Giacomo Puccini (1893). Un plauso va al Regio per aver scelto di aprire la stagione concentrandosi su Manon, un topos forse meno conosciuto di altri, ma decisamente importante, non banale e che ha portato in sala un pubblico internazionale. La storia di Manon, vittima di censura nel Settecento, si è mescolata però strettamente con quella di altri personaggi femminili centrali nella letteratura ottocentesca come Madame Bovary e Anna Karenina, diventando presto un canone.
Le tre Manon che hanno calcato il palcoscenico torinese sono state dirette da Arnaud Bernard, che ha scelto di intrecciare le tre produzioni da un fil rouge, o meglio, da un fil noir et blanc indissolubile. Il bianco e nero, e tutte le conseguenti sfumature di grigio che corrono tra i due estremi, sono un elemento preponderante delle sue tre regie. Il motivo è lo stretto collegamento che ha scelto di intessere con la cinematografia. Nelle tre messinscene ha scelto infatti di citare, in maniera complementare in alcuni casi e supplementare in altri, tre film, tre epoche del cinema francese: il “realismo poetico” degli anni Trenta per Puccini (Le jour se lève di Marcel Carné, 1939), Brigitte Bardot e i parigini anni Sessanta dell’emancipazione femminile per Massenet (La Vérité di Clouzot, 1960) e il cinema muto per Auber (Little roy Fauntleroy di John Cromwell, 1936). Tre opere che indagano caratteri differenti di Manon, che è ribelle in Puccini, torturata in Massenet, frivola in Auber. E la decisione di lasciare tutte le scene e i costumi nelle sfumature del grigio, del bianco e del nero rimarca inesorabilmente il cinema dagli anni ‘30 agli anni ‘60, con un continuo richiamo tra le tre opere. Ma la presenza cinematografica non si limita esclusivamente alle scelte cromatiche: gli atti degli spettacoli sono separati da proiezioni di scene tratti da questi film, che nella Manon di Massenet e di Puccini raccontano parte della storia, che prosegue poi sul palcoscenico senza ripetersi, mentre in quella di Auber creano stacchi, poi reinterpretati in scena. Nei primi due casi i momenti di proiezioni diventano quindi diegetici alla narrazione, sono tasselli narrativi. In quella di Auber invece viene messo in scena il lavoro cinematografico. Sul palco, in abiti seicenteschi, i cantanti interpretano l’opera e attorno a loro, in abiti degli anni ‘30 del Novecento, gravitano macchinisti, pubblico, truccatori, operatori dello spettacolo e un regista che assistono e registrano quella che sarebbe diventata la scena del film. Gli stralci del film del 1936 che vengono proiettati creano quindi degli stacchi, dei pezzi di montato, ma non diegetici rispetto al racconto. Una caratteristica interessante è che le interpreti femminili delle tre Manon ricordano i volti, gli abiti e le caratteristiche delle attrici dei tre film sopra citati. Un plauso va fatto per la gestione delle scene corali in tutte e tre le recite, in particolare nella scena iniziale di Manon Lescaut di Puccini: in un affollato bar della stazione cerchiamo i protagonisti nella folla, ne teniamo traccia, sentiamo e riconosciamo le loro voci indiscutibilmente caratteristiche, ma ci perdiamo nell’osservare le diverse piccole scene che si frammentano in tutto il palcoscenico, nei dettagli attorialmente molto ricchi.
Ma se devo sconfinare dall’oggettività ed approdare nella soggettività, la Manon che più mi ha fatto innamorare è indiscutibilmente quella di Massenet, che tra tutte è anche quella più contemporanea. La scena si apre sul processo a Brigitte Bardot per poi spostarsi su quello di Manon. Sul palco, la tribuna dei giudici sfiora i tre metri d’altezza. E con questo tipo di messa in scena, con la presenza di questa tribuna in ogni atto, indipendentemente da cosa succeda sul palco, sappiamo dall’inizio dello spettacolo quale sarà l’inevitabile verdetto. Manon guarda gli uomini in faccia, li sfida. Il suo processo ricorda un po’ la Giovanna d’Arco del film di Dreyer, in un gioco di sguardi tra imputata e giudici, in cui si conosce già l’epilogo. Sicuramente non assolveranno Manon, come non hanno assolto Giovanna d’Arco, perché su di lei, su di loro, grava il peso di essere donne e di essere colpevoli in una società patriarcale.
Il Regio di Torino ha deciso di aprire le porte su un personaggio femminile forte, che ha rapito e fatto innamorare il pubblico. Non resta che attendere trepidanti i prossimi appuntamenti in cartellone.
Giulia Basso
Foto di copertina: Manon Massenet_Foto Daniele Ratti, Mattia Gaido, Simone Borrasi