“Onirica” al Gobetti di Torino: il sogno è reale
Se in un sogno
ci fosse spazio per un altro sogno
che fosse diverso, ma simile,
che fosse reale, ma migliore,
allora la realtà sarebbe due vote più superficiale
di questo sogno così bello e reale.
E così via, verrebbe da dire. Già, perché a sua volta il secondo sogno conterrà un sogno al cubo, e poi ancora, e in tutte le direzioni, in una matrioska infinita di vite ed esperienze talvolta parallele, talvolta incidenti. Attraverso le frange del pensiero notturno possiamo produrre “spazi” alternativi. Tanto che, si sa, ci si può allenare per ricordare cosa abbiamo creato, fino a raggiungere un notevole livello di consapevolezza per quell’ambiente che in teoria consideriamo irreale, ma che forse non lo è poi del tutto.
La scorsa settimana, martedì 12 (data unica), è andato in scena l’ultimo appuntamento di Nuove destinazioni, la rassegna estiva del Teatro Stabile di Torino. Si è trattato di Onirica, suggestiva performance e installazione che puntava a raccontare il valore vitale del sogno, inteso come tratto fondante del bagaglio di esperienze umane. Mangiamo, beviamo, ci riproduciamo, combattiamo e sogniamo. È qualcosa che ci accompagna da sempre: non lo abbiamo mai capito appieno dal punto di vista scientifico, ma su altri piani alcuni di noi hanno compreso eccome. E attraverso i frammenti di quadri e discorsi di Onirica si tenta, a nostro avviso riuscendoci appieno, di spiegare concretamente come raggiungere e accettare razionalmente quello stadio di pienezza delirata. Laddove però il delirio è etimologicamente inteso: de è l’allontanamento, líra è il solco. Uscire dal solco, riemergere da un piano più basso. Il sogno non sta sotto, nelle viscere, non è un abisso ma una curva convessa verso il cielo e gli universi. Questo spettacolo educa, insegna a percepire, a captare ciò che le parole difficilmente possono esprimere. Il raziocinio in parte permane, sia chiaro, nel senso che nonostante le metafore e gli scenari sfrangiati vi è anche tutto un filone di brani più accessibili, che esemplificano la realizzabilità della scalata verso il sogno, il quale diviene una pellicola memorizzabile, sbobinabile e analizzabile. Un manufatto, quasi. Tanto che, con un passo vagamente più lungo della gamba, possiamo anche iniziare a considerare realtà e sogno come facce della stessa moneta: d’altronde, se la realtà è reale perché per esempio la ricordiamo e la riconosciamo come vera non solo collettivamente ma anche come individui, allora anche i sogni (una volta assimilati e studiati e riconosciuti) diventano altrettanto reali, poiché riferiscono di ciò che siamo nell’essenza (la quale a questo punto può essere astratta e concreta assieme). Non è un argomento semplice da snocciolare, perché è facile esprimersi male, ma Onirica, affidandosi a dialoghi e trame e immagini e suoni e silenzi, ci aiuta a scucire una breccia su un tema che molti evitano, per pigrizia o paura.
Siamo al Teatro Gobetti di via Rossini: le muse affrescate ci osservano prendere posto e spegnere i cellulari. Le maschere sono state molto chiare all’ingresso: gli apparecchi accesi interferiscono con gli strumenti sul palco. Un attore ha una cinepresa in mano, e riprende gli occhi aperti di una delle narratrici: seguirà anche gli altri, più tardi. Ci sono dei microfoni. Nient’altro. Per cinquanta minuti quattro figure vagano, ora interagendo, ora ignorandosi, e insieme (ma anche da soli) costituiscono un habitat notturno valido quanto lo stato di veglia. Solo che cambia il codice. Non l’idioma o i gesti, ma proprio il piano espressivo. Come nei romanzi fantastici di Walter Moers, dove lo straniero magari si ciba del suono dei violini. Sotto la sceneggiatura vera e propria, però, si possono cogliere delle cose a cui è più facile dare un nome: l’amore, la delusione, la violenza, la rabbia, la frustrazione, il desiderio, la noia, il rifiuto, la curiosità. Uno spettacolo metafisico, dunque, che tuttavia ritorna verso un tangibile. Tangibile con gli occhi, con le orecchie, con quelle parti del cervello di cui ignoriamo il funzionamento. Ed è proprio questo il quid dell’esibizione, che vede Giulia Odetto dirigere Daniele Giacometti, Camille Guichard, Andrea Triaca e Beatrice Vecchione: tutti e quattro ugualmente coinvolti e capaci, versatili e audaci, ben sintonizzati fra loro, precisi soprattutto nei movimenti casuali. Erotici, metempirici, veementi. Meritano di essere citati anche Antonio Careddu, che ha abilmente curato la drammaturgia, e Lorenzo Abattoir, che ha completato l’opera occupandosi dell’ambientazione sonora.
Davide Maria Azzarello