“Non sono sessista, ma… Il sessismo nel linguaggio contemporaneo” di Lorenzo Gasparrini
“Incontrai il femminismo parecchi anni fa, quando ero uno studente e dovevo ancora laurearmi”. Inizia così il libro di Lorenzo Gasparrini, “Non sono sessista, ma… Il sessismo nel linguaggio contemporaneo”(2019, pp. 230, euro 16), edito da Tlon. Un incontro che porta a una riflessione sulla corrispondenza effettiva tra significato e significante al fine di mettere in luce il legame tra discriminazioni culturali e discriminazioni semantiche. Nel pensiero contemporaneo si avverte forte l’eco della “performatività del linguaggio”, termine che sta a indicare come il linguaggio abbia il potere di produrre le cose che dice: il nostro pensiero è profondamente influenzato dal nostro linguaggio, che a sua volta influenza il pensiero stesso.
Nel 1987, la studiosa Alma Sabatini pubblica “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, che già trasuda il bisogno di raccontare correttamente una realtà in mutamento, un mondo di valori in subbuglio. La lingua, secondo Sabatini, non solo manifesta il nostro pensiero ma, addirittura, lo condiziona poiché restituisce e regola una visione data del mondo; una visione che non è neutra bensì caratterizzata da una scala di valori, una gerarchia, che influenza i parlanti. Partendo da questa teoria, Gasparrini si sofferma sull’uso non neutro ma sessista della lingua italiana:“[…] essere nel mondo è tutto fuorché una condizione astratta o universale, è una situazione che ha innanzitutto un genere. Ciò che condiziona la mia percezione e il mio linguaggio, entrambi esperiti ed espressi, e ne ho coscienza nelle relazioni con altri, soggetti o oggetti, in quanto soggetto situato” (p.16).
“La lingua italiana ha solo due generi. Questo implica che le parole sono maschili o femminili e nient’altro, pur nella varietà dei tipi di parola che danno adito a molte regole diverse, anche all’invariabilità di genere […]” (p. 24). Quel “sessismo linguistico” – per dirla con Cecilia Robustelli – capace di escludere uno o l’altro genere: “Qualsiasi ente nominabile appartiene a un genere o all’altro: ogni parola, in italiano, è maschile o femminile, appartiene a un campo o all’altro, ha un connotato non neutro. La lingua italiana è quindi vagamente ma inevitabilmente eteronormativa” (p. 25). Appare chiaro, dunque, come e quanto la lingua sia uno strumento capace di riflettere il pensiero, le ideologie, la cultura di un popolo. Un presupposto di partenza, questo, dal quale non ci si può sottrarre al fine di comprendere a pieno le implicazioni che il nostro modo di parlare ha a livello sociale e culturale. Lingua, pensiero e società sono infatti tre concetti profondamente correlati tra di loro e, in un’ottica di genere, la scarsa o discriminatoria rappresentazione linguistica della donna può avere effetti nella formazione di opinioni e stereotipi sessisti su di essa: “Ricordiamo anche la triste sorte che stanno vivendo i nomi femminili di professioni generalmente esercitate da uomini. Le ingegnere, le architette e le avvocate hanno grosse difficoltà a rendersi credibili come i loro colleghi, e per questo preferiscono molte volte essere nominate al maschile […]; sostengono che in questo modo non perdono di autorità. Certamente è vero. Il sessismo è appunto lì a sostenere l’autorità maschile: non nominandosi correttamente le donne non fanno che confermarlo” (p. 78).
Quando Ferdinand de Saussure sostiene che il linguaggio ha una dimensione sociale e una individuale evidenzia quanto le scelte linguistiche, che ognuno di noi viene spronato a compiere nell’atto di delineare la figura della donna e dell’uomo, siano un prodotto del nostro pensiero che, a sua volta, è influenzato dal pensiero collettivo. “Gli esseri umani non hanno un linguaggio per pensare e uno per esprimersi: non esiste alcun ‘interno’ che poi viene tradotto nelle espressioni proferite con la bocca, o scritte a mano o con la tastiera. Il linguaggio che adoperiamo è il nostro pensiero: non abbiamo una lingua misteriosa nella quale si formano i pensieri e sentimenti che poi sono espressi con una parola piuttosto che con un’altra” (p. 87).
Sull’onda dei femminismi, la “questione del gender” viene affrontata da Gasparrini analizzandone la polisemia di significati (genere linguistico, biologico e sociale), così da poter dimostrare, ancora una volta, quanto la dimensione linguistica abbia delle ripercussioni nel modo in cui percepiamo la realtà, costruiamo la nostra identità e sedimentiamo gli stereotipi: studiando a fondo i modi di dire, i proverbi, le battute più comuni nel nostro linguaggio, l’autore delinea – in ben due capitoli di ampio respiro nei quali compaiono numerosi esempi – le discriminazioni linguistiche a cui le donne sono soggette: “Moltissimi uomini e moltissime donne ancora oggi sono educati a giudicare, attraverso lo strumento della discriminazione sessuale, tutta una serie di comportamenti secondo loro non accettabili ma che con le pratiche sessuali non c’entrano nulla” (p. 87).
Tali riflessioni hanno quale obiettivo il raggiungimento dell’uguaglianza tra donne e uomini su tutti gli aspetti sociali, evitando di minimizzare (se non addirittura annullare) le differenze tra i due sessi: “[…] la storia si disinteressa dei modelli astratti e inesistenti quali sono le ‘persone’: le differenze di sesso, genere e orientamento hanno da sempre tracciato precise linee di potere, dominio, sofferenza e ingiustizia che non sono mai state indifferenti al corpo di chi le agisce e di chi le subisce. Annullare le differenze, storiche e attuali, in nome di una ‘giustizia’ uguale per tutti e tutte è la prima palese ingiustizia da evitare, la prima colossale e ipocrita mancanza di responsabilità sociale e storica” (p. 67). Le differenze, quindi, non devono essere livellate ma rafforzate. Il corpo di ciascuno di noi è dotato di un potere relazionale e identitario che si ritrova a pieno nei fenomeni violenti che, troppo spesso, vengono raccontati rimpolpati di elementi sessisti. Non mancano nel testo di Gasparrini numerosi esempi, che l’autore analizza e destruttura: giornalisti che immaginano i pensieri di un femminicida per spiegarne le motivazioni, uomini politici che cercano nel comportamento della vittima le cause del crimine, esperti che dimostrano tutta la loro non conoscenza del mondo delle politiche di genere, uomini e donne di cultura che minimizzano le questioni di genere per attirare consensi. Tutti questi comportamenti, soprattutto quando attuati da professionisti della comunicazione, sono da biasimare e correggere: Gasparrini, a termine di ogni capitolo e a fine testo, regala al lettore numerosi spunti di lettura per approfondire quanto da lui magistralmente illustrato nel suo lavoro e per imparare a scegliere le parole da (non) dire per rappresentare noi stessi e il nostro pensiero.
Grazie al volume di Gasparrini, completo e mai complesso, non possiamo più proclamarci ingenui. Non possiamo più dire “Non sono sessista, ma…”
Annunziata Procida