“Non possiamo produrre spettacoli, ma possiamo produrre pensiero” – Intervista a Francesca Garolla del Teatro i di Milano
Dall’inizio dell’emergenza sanitaria a fine febbraio, Milano, come poi a ruota tutte le altre città d’Italia, si è vista costretta alla chiusura di ogni attività culturale e artistica, tra cui anche il teatro, interrompendo bruscamente gli spettacoli. Ora il lockdown è terminato, ma ci vorrà ancora tempo affinché si torni a una normalità che comprenda i fantomatici “assembramenti”, il ritrovo di tante persone vicine in uno stesso luogo, come la sala di un teatro, ad esempio. Per avere un punto di vista più vicino alla realtà teatrale in questo 2020 così fuori dal comune abbiamo intervistato Francesca Garolla, uno dei direttori artistici del Teatro i insieme a Renzo Martinelli e Federica Fracassi. Teatro i è uno spazio che conta 80 posti a sedere, in via Gaudenzio Ferrari 11, a pochi passi dalla Darsena e dai navigli e propone spettacoli di drammaturgia contemporanea, richiamando un seguito fedele e appassionato, compresa la sottoscritta.
Ho letto quello che in questo periodo il Teatro i ha proposto sul sito e sui social, una sorta di diario focalizzato sul presente. Da dove è nata questa idea? Come hai vissuto la chiusura dei teatri fino a oggi?
Quando è partito tutto, la situazione era molto confusa. Per prima cosa sono state chiuse le scuole e le attività culturali, tra cui i teatri. Da una parte si cercava di capirci qualcosa, dall’altra tutto sembrava un po’ surreale: erano misure così necessarie? Si trattava davvero di una causa di forza maggiore? Successivamente, come sappiamo, la chiusura è stata non solo estesa agli altri settori, ma ha coinvolto l’intero Paese. La reazione che abbiamo avuto all’inizio è stata corrispondente alla contraddittorietà della comunicazione istituzionale, ci si chiedeva se non ci fosse un accanimento verso la cultura: perché “maltrattare” il teatro, chiudendolo, quando ristoranti e bar rimanevano aperti? È stata una reazione emotiva, legittima in quel momento, ma quando la situazione è diventata esplosiva ci siamo dimenticati più o meno tutti di questo passaggio. Teatro i, all’inizio, ha scelto la cautela, facendo piccole comunicazioni anche molto estemporanee, poi, a un certo punto io, Renzo (Martinelli) e Federica (Fracassi) della direzione artistica abbiamo cercato di capire se fosse possibile creare una sorta di “narrazione” che potesse esprimere il nostro lavoro, il nostro “produrre pensiero”, come ci piace dire, attraverso i canali comunicativi che ci erano rimasti a disposizione, perché quello del palcoscenico non lo era più. Quindi abbiamo ideato una campagna composta da diverse linee tematiche. Abbiamo cercato di raccontare quello che stava accadendo rubando le parole degli autori che abbiamo affrontato in questi anni (#parolediteatroi). Abbiamo diffuso, anche se in minima parte, degli articoli o spunti di riflessione che trovavamo condivisibili e che avevano l’obiettivo di creare occasioni di riflessione e dialogo (#pensiericondivisi). Poi ci sono stati piccoli racconti, molto metaforici, ideati da Renzo Martinelli insieme al cantautore Francesco Tricarico, che aveva già collaborato con noi e che si è divertito a creare le pillole del Professor Franz (#professorfranz), e infine questi piccoli scritti che sto portando avanti da un po’, #esercizidilibertà, che sono nati prima del lockdown e che sono stati influenzati dal fatto che io, come tutti, fossi rimasta chiusa in casa. Abbiamo scelto quindi di utilizzare un linguaggio molteplice, non incanalandoci in una sola direzione e tralasciando la diffusione video del nostro repertorio. Volevamo un linguaggio vario, in modo tale da intercettare persone diverse e lavorare a più livelli.
Ho trovato molto bello il focus sul presente, le molteplici direzioni dei post e la “produzione di pensiero”. Per quanto riguarda i tuoi #esercizidilibertà, mi hanno colpito due cose: il fatto che si chiamassero così in un momento in cui la libertà era un concetto applicabile solo all’interno delle quattro mura di casa e, in secondo luogo, il sottotitolo “ancheiohopaura”. Che tipo di paura rappresenta? È cambiata rispetto all’inizio della situazione di emergenza sanitaria?
“Ancheiohopaura” è pieno di cose. Personalmente in questo periodo mi sono spaventata tantissimo. Quando hanno sospeso Schengen, non so perché, ho avuto una paura pazzesca, è una cosa stupida, perché era ovvio che lo sospendessero, però mi ha colpito perché mi è sembrato come sancire il fatto che anche qualcosa di molto importante poteva finire: la libertà di spostamento, che è uno dei privilegi più grandi che abbiamo e di cui spesso ci dimentichiamo. Mi ha fatto paura, poi, la tendenza a “mettere paura”: siamo stati bombardati da immagini che richiamano in noi qualcosa di atavico, ancestrale. Se mi fanno vedere furgoni militari, linee di demarcazione, città chiuse e truppe, il richiamo alla guerra è evidente, come è evidente che è proprio a quello che mi vogliono fare pensare. E, infine, la paura dell’“altro”, che improvvisamente è diventato fonte di minaccia e pericolo. Insomma, trovo che la comunicazione abbia calcato moltissimo la mano sulla paura, più che sulla consapevolezza. Da qui il mio “ancheiohopaura”. Perché anche io ho paura, come tutti, ma cerco di ricordarmi quotidianamente che c’è una paura buona, che protegge, ed una paura che invece isola, e quella non dipende dal fatto di essere chiusi in casa.
Mi ha colpito un pensiero pubblicato sul social di Teatro i il 19 maggio, che inizia con “Se io avessi dei bambini, oggi, proprio non saprei che dirgli”, che si focalizza sulla preoccupazione di una madre di far passare il tempo e la paura ai figli. Il finale del post è spiazzante: i bambini, come reazione al tentativo della madre di rassicurarli perché presto incontreranno di nuovo tante persone, rispondono “che tutte queste cose si possono già immaginare e che sono solo i grandi a dubitare perché, oltre il muro di casa, non sanno proprio guardare”. L’adulto non sa più vedere le cose con la semplicità dei bambini. Come hai elaborato questo esercizio di libertà?
Siamo tutti animali abitudinari, ci adattiamo velocemente alle situazioni e alla fine ci convinciamo persino di avere il controllo delle cose. Ci mettiamo da soli in un recinto, ci diamo delle regole e così, senza nemmeno accorgercene, accettiamo più di quanto dovremmo, credendo di non dovere o potere fare altrimenti. I bambini, invece, sono per loro natura mutevoli, ogni giorno imparano o scoprono o inventano qualcosa e non lo fanno mai in modo finalizzato. Gli #esercizidilibertà sono nati con quest’idea: bisogna allenare la nostra libertà, esercitarla, ad ogni costo, altrimenti ce le dimentichiamo, la diamo per scontata. Stare in quarantena o tollerare di lavorare 16 ore al giorno in condizioni pessime senza darsi la possibilità di essere o fare altro, sono due facce della stessa medaglia. Gli #esercizidilibertà, sono il tentativo di trovare gioco, immaginazione, punti di vista diversi, movimento persino negli spazi più angusti. Abbiamo sempre bisogno di incasellare le cose, di capirle, di prendere una posizione pro o contro qualcosa, ma, forse, quello che serve davvero è allargare le braccia, abbandonarsi e, come fanno i bambini, guardare che tanto di quello che accade è semplicemente fuori dal nostro controllo. In quel momento gli spazi di libertà che si aprono sono molto grandi. E, in ogni caso, c’erano un sacco di cose da guardare persino in quarantena, bastava avere una finestra.
Sei tornata fisicamente al Teatro i?
Adesso entrare negli spazi chiusi prevede una serie di provvedimenti, come la sanificazione, e a Teatro i tenere le distanze obbligatorie è molto complicato. Dal 15 giugno i teatri possono aprire, è vero, ma le condizioni imposte non permettono realmente l’apertura di tutti i teatri. A Teatro i potremmo avere 12 spettatori se rispettassimo le regole, non è fattibile.
Volevo infatti chiederti come vedi questa riapertura, considerando che il 15 giugno è quasi estate? Comincia a fare caldo, c’è luce fino a tardi e tendenzialmente le persone optano per stare all’aperto, ma anche se così non fosse e se per assurdo non ci fosse più bisogno di alcun distanziamento, non so se le persone si sentirebbero al sicuro in uno spazio chiuso dopo il bombardamento mediatico che tutto il popolo italiano ha subito in questi mesi.
La stagione di Teatro i al 15 giugno sarebbe stata già conclusa, normalmente non portiamo le stagioni molto avanti, a meno che non ci siano progetti speciali. E poi, ci sono diversi aspetti da considerare, uno è la programmazione, perché se non hai già programmato una stagione estiva, farlo adesso per adesso è oneroso e praticamente impensabile. Oltre a questo, ad oggi, non ci sono le condizioni economiche per investire su un ripensamento dell’attività. E, infine, se anche valutassimo di realizzare qualcosa in spazi all’aperto o on air, non sarebbe qualcosa di conforme alla nostra natura. Noi allestiamo spettacoli in uno spazio teatrale, fare altro non è una cosa banale. Io capisco che ci sia e una gran voglia di tornare a lavorare, ma non voglio certo farlo a tutti i costi. Riprendere l’attività non è qualcosa da fare senza tenere conto delle proprie competenze o delle proprie specifiche. E qui, secondo me, c’è un fraintendimento: “il lavoro vocazionale”, che essendo vocazionale va fatto comunque e in qualunque condizione. Voglio dire: non è che se il mio è un lavoro vocazionale (e in effetti lo è) non deve avere le stesse tutele di qualsiasi altro lavoro oppure mi devo mettere a fare qualsiasi cosa pur di dimostrare di esistere o “essere utile”. Siamo già utili alla società: produciamo pensiero, movimento, economia. Cultura. Che esistiamo è un presupposto, non qualcosa da conquistare. E il punto non è che il nostro premier dica o meno, durante una conferenza stampa, “lavoratori dello spettacolo”. Non ci serve una pacca sulla spalla o l’essere nominati sui canali mainstream, ci serve un welfare che tuteli questo lavoro, che ci sostenga nei momenti di crisi, che faccia sì che i contributi pubblici arrivino in un certo modo e in un certo tempo, abbiamo bisogno che non ci venga continuamente chiesto di rinnovarci, di fare cose nuove, di andare a fare teatro per strada o su facebook che tanto è lo stesso… Ci serve questo, e di questo avevamo bisogno anche prima dell’emergenza sanitaria (durante la quale, peraltro, alcune forme di sostegno, seppure non per tutti, sono state anche trovate). E mi sembra sintomatico il fatto che solo nel momento in cui ci siamo fermati abbiamo iniziato ad alzare la voce, pretendendo risposte e azioni. È come se prima non avessimo potuto fare altro che accettare che il sistema teatrale fosse così. Bene, allora è un’occasione: la nostra voce si è alzata, non possiamo abbassarla di nuovo perché ci hanno detto una data di apertura, altrimenti, nel migliore dei casi, torneremo soltanto al punto di prima. Quindi, per quello che riguarda Teatro i, vogliamo fare quello che sappiamo fare e quello che sappiamo fare, al momento, si attua in una sala teatrale, ha una sua linea, una sua struttura, una sua visione. Il resto, ora, per noi, sarebbe improvvisazione, e non una buona improvvisazione.
In questo periodo molti artisti hanno unito le forze sottoscrivendo diverse petizioni perché non c’era ascolto da parte del Governo. Sulla pagina facebook di Teatro i il 24 aprile è stato pubblicato un post che dice “non vogliamo resistere, vogliamo esistere” perché il fatto di esistere è il punto fondamentale.
Questo è un momento epocale e capisco che non si possa mettere la stessa attenzione su tutto. In Italia le scuole saranno chiuse fino al prossimo anno scolastico, è successo solo durante la guerra, non mi stupisco quindi che lo spettacolo dal vivo passi in secondo piano. Credo che il non essere nominati non significhi necessariamente essere ignorati. Lo spettacolo dal vivo è spesso stato “dietro”, nascosto o poco considerato, non è dietro adesso: questa situazione ha solo fatto emergere la sua crisi in maniera più dirompente. Per anni abbiamo fatto una vera e propria resistenza, adesso, possiamo usare questa occasione, per rafforzare la nostra esistenza: sono tante le associazioni di attori che stanno portando avanti le loro istanze, tante le associazioni di categoria che stanno interloquendo con le istituzioni, io spero che si sia capaci di unire queste forze facendo sentire la nostra voce, e cercando di capire quali sono le cose da cui non si può più prescindere. Il vero problema è che questo settore non è tutelato, quindi nel momento in cui succede una cosa del genere non ci sono di per sé delle tutele, ma vanno create. Quando i teatri riapriranno di nuovo con tutti i loro posti a sedere dovremo ricordarcene ,non dobbiamo ricordarcelo solo adesso. Il punto non è quando riapriranno i teatri, ma come riapriranno: quali saranno le condizioni dei lavoratori, in che modo verranno tutelati gli spazi e gli enti più fragili, come verranno utilizzate le risorse, ci sarà davvero trasparenza?
Per concludere, in questo tempo di isolamento hai preso in mano progetti accantonati o hai avuto nuovo estro creativo?
È successa una cosa strana. Io, in questo periodo, da aprile a giugno, avrei dovuto essere in residenza alla Cité Internationale des Arts di Parigi per scrivere un testo nuovo, ma dato che la situazione di emergenza è scoppiata a marzo, non ci sono andata. Mi sono detta che ci avrei lavorato comunque, ma dopo un po’ ho ammesso di fare estrema fatica, mi era diventato impossibile “immaginare teatro”. Sento il teatro come qualcosa di estremamente collegato alla realtà, e non sto parlando di realismo quanto del fatto che ho la necessità di partire dal mondo che conosco per poterlo trasfigurare sulla scena. Ecco, io il mondo di adesso non riesco a leggerlo, quindi non ne posso scrivere. Ho bisogno di tempo. È come se il mio pensiero teatrale fosse in stand by, come se il tempo e lo spazio teatrale non avessero più le coordinate che avevano prima, come se io stessa avessi interiorizzato la sala vuota. E silenziosa. Così, ho ripreso in mano un testo che avevo scritto l’anno scorso e non riuscivo a terminare. Ora lo sto riscrivendo, ma per farlo ho dovuto dimenticarmi il palcoscenico e non credo che sarà mai un testo teatrale. Adesso, dentro di me le parole per il teatro sono in pausa. Torneranno, ma credo che avranno un suono diverso.
Roberta Usardi
Fotografia di Laila Pozzo
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