“Nel primo cerchio” – Il limbo di Aleksandr Solženicyn
Si presenta tormentato e a tratti claustrofobico “Nel primo cerchio” (2019, Voland, pp. 917, euro 26) il romanzo di Aleksandr Solženicyn scritto negli anni che vanno dal 1955 al 1958, modificato nel 1964 – distrutto per ragioni di clandestinità – e successivamente ricostruito nel 1968.
Tradotto per la Voland da Denise Silvestri e arricchito dalla postfazione di Anna Zafesova, “Nel primo cerchio” porta alla luce una delle pagine più spietate della storia, quella della brutale e dissennata politica staliniana. Nonostante la sua mole, il libro fluisce abbastanza velocemente, se non fosse per i temi, che costringono a pause e riflessioni continue. L’intero romanzo non è che la ricostruzione dei tre giorni del Natale del 1949, vissuti all’interno della šaraška di Marfino, una prigione poco distante da Mosca, dove matematici, fisici, chimici, ingegneri, tecnici e altri scienziati erano detenuti per aver commesso crimini politici. Nonostante l’ostilità dell’ambiente in cui si svolgono i fatti, i numerosi protagonisti, si trovano a lavorare insieme, in una convivenza sicuramente forzata, che però non risparmia lunghe riflessioni sui più disparati temi che finiscono di coinvolgere anche il lettore. È attraverso le loro voci che emerge anche il pensiero dell’autore sulla rivoluzione, la religione, il marxismo, le scienze, la prigionia stessa e molto altro ancora. Colpisce come tutte queste persone, benché prigioniere, si sentano “privilegiate” in un certo qual senso, perché – risparmiate dai più temuti Gulag – viene loro concesso di vivere nella šaraška, dove possono essere nutriti e lavorare in condizioni migliori. La šaraška rappresenta quindi la loro gabbia dorata perché sempre di inferno si trattava, ma nel suo girone più alto, il migliore: nel primo cerchio. È in questo “limbo” che gli scienziati sperimentano nuove tecnologie da impiegare per la sicurezza nazionale e lo spionaggio che serviranno ai loro carcerieri a reclutare altri prigionieri. Sarà quindi il loro stesso lavoro ad alimentare un sistema che li opprime e costringe non più a vivere, ma a sopravvivere.
La penna di Solženicyn, graffiante e perfino ironica in alcuni punti, non risparmia nessuno, Stalin compreso, che viene ridimensionato a un vecchio mediocre da cui dipendono le sorti di un’intera nazione tristemente abbruttita dalla paura. La lettura di questo libro, impegnativa ma consigliata, porterà anche noi a chiederci cosa siamo disposti a fare per cambiare un destino che sembra essere segnato.
Sara Pizzale