Nasby & Crosh e gli EP della tempesta – L’intervista
Dal 4 maggio è disponibile il nuovo singolo e video “Yet to be done” della band folk milanese Nasby & Crosh; il singolo fa parte dell’EP “Hush beyond the storm”, uscito lo scorso febbraio, ultimo tassello di una trilogia che iniziata con “Quiet before the storm” (2014) e continuata con “Here comes the storm” (2018). La band è formata da Luca Cirio (voce, chitarra acustica, banjitar), Alessio Premoli (chitarra acustica), Federico Cavaliere (cori, piano, glockenspiel), Domenico Vena (basso, cori), Riccardo Quagliotti (wooden drums).
Il singolo “Yet to be done” è l’ultima traccia del vostro nuovo EP “Hush beyond the storm” che fa parte di un concept molto ampio, “The storm”. Questo “silenzio oltre la tempesta” per voi cosa rappresenta?
“Hush” (come siamo soliti abbreviarlo affettuosamente) è la nostra meditazione su tutto ciò che è successo prima e durante la tempesta. Quando qualcosa di molto intenso irrompe con un forte impatto emotivo sulla propria esistenza la mente ha bisogno di isolarsi e metabolizzare il tutto per capire cosa tenere con sé di quell’esperienza e cosa no. Per noi in musica è stato così, il nostro concept era chiaro in potenza già dal 2013, ma la sua messa in atto è durata anni. È stato un involontario percorso di comprensione della nostra identità musicale e “Hush” è ciò che abbiamo imparato di noi.
“Yet to be done” è rappresenta l’epilogo di tutto, ma è anche il prologo di qualcosa di nuovo?
Musicalmente parlando, più che rappresentare un vero e proprio prologo è un rassicurante annuncio che qualcosa sta per cambiare. per esempio perché è la prima e finora unica canzone legata al nostro progetto a essere nata ed elaborata totalmente in sala prove e non “a tavolino”. Il secondo motivo lo dà proprio il titolo: abbiamo scoperto, con la nuova formazione a cinque elementi, di un sacco di nuove strade musicali che ci si aprono davanti e per noi “tante cose sono ancora da fare”. E considerato cosa sta capitando al pianeta in questi mesi, sono molte di più di quelle che avevamo preventivato.
Tutti e tre gli EP accerchiano, nei titoli, la vera tempesta: prima la quiete, poi la consapevolezza del suo arrivo e ora il silenzio che sta oltre. Quali sono state per voi le tempeste degli altri due EP e qual è, se esiste, la tempesta “madre” ora che la trilogia è completa?
La tempesta “madre” che ha acceso la miccia di tutto il concept è un racconto autobiografico con al centro il ritrovarsi di due ex amanti a distanza di anni e il vano tentativo di riaprire il libro alla pagina in cui si era lasciato, ma con tante parole in sospeso che rimarranno tali. “Quiet Before The Storm” è l’inizio del nostro cammino, entusiasta, spensierato e ingenuo. La nostra tempesta è stata una vera e propria alluvione che nel 2016 ha devastato lo scantinato in cui avevamo la nostra sala prove e di incisione mentre ultimavamo le registrazioni proprio di “Here Comes The Storm” , lasciandoci profughi musicalmente e mettendo a repentaglio la nostra stessa voglia di continuare.
Le copertine di tutti e tre gli EP hanno gli stessi soggetti, anche se in momenti diversi, una storia a puntate anche in questo caso, da cosa è nata l’idea?
È nata dalla nostra scelta di dividere in tre capitoli quello che avrebbe dovuto essere un album ma al tempo stesso di dare un’idea della loro appartenenza allo stesso mondo in evoluzione e raccontare una storia. Arianna Petronella e Paolo Bonfadini, i nostri interpreti, sono stati incredibilmente empatici con ciò che volevamo rappresentare e fanno parte di quella che per noi ormai è una famiglia, di cui fanno parte anche Irene Cavaliere, una “regista” perfetta, e Gabriele Faoro, un direttore della fotografia incredibile.
Siete una band folk milanese, ma avete scelto di comporre canzoni in inglese, come mai questa scelta?
Potremmo rispondere dandoci un tono e affermare che vogliamo parlare a tutto il mondo anziché rimanere confinati alle dogane italiane, ma non lo faremo. La verità è che siamo stati cresciuti da giradischi su cui girava musica internazionale fin da bambini e quel modo di usare le sillabe non riusciamo proprio a togliercelo dalle orecchie. Il nostro genere poi lo impone in maniera particolare, a meno che tu non sia un De Andrè, un Guccini o un De Gregori. O anche un Niccolò Fabi, per fare nomi più recenti. E invece noi siamo i Nasby & Crosh.
Nell’ascolto dei vostri EP ho notato una bellissima presenza di cori e armonizzazioni, quali sono stati i vostri artisti di riferimento per trovare la vostra identità? A me vengono in mente Bee Gees e Beatles…
Bee Gees e Beatles non sono i nostri diretti riferimenti ma chi tra di noi li arrangia, Federico “inarteCapra” Cavaliere, ha ascoltato decine di volte i loro dischi, perciò non ci meraviglia ci abbiate trovato qualcosa di simile. I nostri riferimenti sono, oltre che i nostri “anagrammonimi”, di sicuro i Toto.
Durante il periodo di stop forzato delle attività avete trovato ispirazione per altre canzoni?
Abbiamo ancora tanti quaderni pieni di scarabocchi da cui attingere materiale per storie che vorremmo raccontarvi in un disco, stiamo usando questo tempo più che altro per domandarci cosa cambiare di noi e della nostra identità musicale pur rimanendo noi stessi.
Avete in mente, non appena sarà possibile, di proporre l’intera trilogia in concerto?
Assolutamente sì. Amiamo registrare canzoni, ma il nostro posto è sul palco a sudare e abbracciare le menti e i cuori di chi sta in sala e decide di rimanerci perché scatta quella scintilla con noi. Ci manca tanto questo.
Roberta Usardi
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