“Morte di un commesso viaggiatore” alle Fonderie Limone di Moncalieri
C’è qualcosa di sorprendente nell’esposizione culturale dei classici: politicamente impegnati, diacronici, orientati e orientanti, riformisti e rivoluzionari, impeccabili nonostante lo scorrere degli eoni geologici. Defoe, Arendt, Fallaci, Dante, Yourcenar, Shelley, Deledda, Flaubert, Brönte, Hölderlin, Saffo, Oates, Carroll, Merini, Boccaccio, Dickinson, Shakespeare e poi anche Lessing, Calvino, Omero, Plath, Manzoni, Morante, Machiavelli, Kafka, Rowling, Esopo, Svevo, Szymborska, Borges. Ora, si potrebbe andare avanti così all’infinito, espandendosi verso la musica, l’arte, la danza, la psicologia, la teologia ed oltre. Per fortuna, e per questo bisogna ringraziare il cristianesimo e più in generale qualunque dottrina di matrice misterica, la selezione letteraria di opere che trascendono lo spaziotempo e di cui ancora oggi disponiamo, grazie ai benedettini, ai copisti in generale, a Bi Sheng e poi Gutenberg; è pressoché illimitata, soprattutto se commisurata all’esigua quantità di momenti che ci vengono concessi per dedicarci alla lettura, allo studio, alle analisi ponderate e a qualunque riflessione di carattere culturale.
Tra i summenzionati vi è un assente di cui oggi scriveremo con molto piacere grazie al Teatro Stabile di Torino. Trattasi di Arthur Miller: drammaturgo newyorchese classe 1915, autore rispettato e studiato nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, marito (dal ‘56 al ‘61) e convertitore religioso di Marilyn, e poi ancora collega di Zeffirelli, Albertazzi e Monica Vitti; e infine, dal 2007, dopo un’inchiesta di Vanity Fair, crogiuolo (giustappunto) di certe critiche borghesi per via di un figlio mongoloide ripudiato (secondo Robert Whitehead) e lasciato in un brefotrofio negli anni Sessanta. Miller, oltre a perle come L’orologio americano, Gli spostati e Vetri rotti, ha partorito Death of Salesman, per noi Morte di un commesso viaggiatore (un raro caso in cui l’inglese è più elegante dell’italiano), il quale affronta temi come il conflitto transgenerazionale, l’ipocrisia e lo scompenso sociale che nascono nel lato oscuro del sogno americano, ma soprattutto l’ineluttabile responsabilità di ogni individuo di fronte al resoconto delle proprie azioni comprovate e vidimate dal tribunale del post-mortem. Lo spettacolo è stato congeniato e diretto da Jurij Ferrini, navigato esponente del teatro contemporaneo, attivo anche durante la pandemia (qui per la nostra recensione del suo Vladimiro), nonché probabile futuro direttore del Teatro Piemonte Europa (in base alle sue recenti dichiarazioni per La Stampa). Ferrini, tuttavia, dopo aver studiato l’economia secondo Jeremy Rifkin, sale anche sul palco e interpreta Willy Loman, il protagonista, in modo molto convincente e cinematografico. Con lui, da Loman emerge tutto, come un fiume in piena: è il venditore per antonomasia, ma anche la vittima delle svilenti e feroci logiche del libero mercato, nonché un padre benintenzionato che però inconsapevolmente proietta quelle stesse follie turbocapitaliste suoi propri figli (che peraltro molti dipingono come ingrati, ma quest’etichetta bisognerebbe ridiscuterla). Il Loman di Ferrini incarna accuratamente la figura pietosa disegnata da Miller: è un maschio a tratti maschilista (ma poi anche affezionato alla moglie) che a sessantatré anni si ritrova senza lavoro, indebitato, stanco, malato; il mutuo è quasi estinto, la sua Linda è invecchiata precocemente, e i figli trentenni non hanno davvero concluso molto nella vita (per noi, sul piano lavorativo; per lui, sul piano esistenziale, data l’equazione vita uguale lavoro con la quale è stato indottrinato). Sul palco con Ferrini, un’altra interprete eccezionale: Orietta Notari, voce vibrata e gestualità impeccabile, è la moglie servizievole, paziente ma emotiva, che si rammenda le calze mentre l’amante di Willy ne ha sempre di nuove. Completano il cast Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Vittorio Camarota, Fabrizio Careddu, Paolo Li Volsi, Maria Lombardo, Federico Palumeri, Benedetta Parisi. Le stelle più brillanti però sono loro due, marito e moglie: a livello recitativo, l’esperienza e in generale il bagaglio teatrale di Ferrini e Notari sono impareggiabili, e lo scompenso attorale è talora evidente (non sgradevole, ma lampante sì). Funzionali ed evocative le scene di Jacopo Valsania, opportuni i costumi di Alessio Rosati.
La prima dello spettacolo è stata martedì 25 maggio 2021, dalle 19.30 alle 22.30 (quarto d’ora di pausa compreso), alle Fonderie Limone di Moncalieri, dove tra le altre cose han finalmente riaperto il bar. Le repliche proseguiranno fino a domenica 13 giugno, quindi abbiamo ancora poco più di una settimana per assistere a questo fulgido e lucido tentativo (nel complesso riuscito) di denunciare le barbariche incoerenze egoriferite dell’homo oeconomicus.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Andrea Macchia