“Misery” is back in town al Teatro Menotti di Milano
Utilizzando il titolo di un altro classico di Stephen King, a volte ritornano. E Misery è tornata. Esattamente come desidera la protagonista dell’opera kinghiana, anche se non sulle pagine stampate di un libro, ma sul palcoscenico del Teatro Menotti di Milano, dal 22 al 27 di novembre.
Al 2005 risale l’adattamento teatrale, che ha visto protagonisti Bruce Willis e Laurie Metcalf diretti da Will Frears. Lo script porta la firma di colui che già era stato autore della trasposizione per il grande schermo nel 1990: lo scrittore, drammaturgo e sceneggiatore William Goldman, anche nel suo caso un ritorno: mancava da Broadway da quasi 40 anni.
Filippo Dini porta in scena, con la produzione di Fondazione Teatro Due e del Teatro Nazionale di Genova, la versione italiana dal 2019 – nella traduzione di Francesco Bianchi-, inizialmente ricoprendo oltre alla regia anche il ruolo maschile principale, attualmente invece rivestito da Aldo Ottobrino, che si fronteggia in questa sfida con Arianna Scommegna. Aiuto alla regia e coprotagonista Carlo Orlando.
La scenografia riprende quella già pensata per i teatri statunitensi: su una piattaforma circolare ruota l’impianto della casa: camera da letto, corridoio-ingresso, cucina-sala da pranzo, esterno. Le scelte attuate da Laura Benzi accentuano però, rispetto alla versione americana più realistica, il senso claustrofobico della vicenda, con prospettive falsate ed esasperate davvero ben congegnate, in una abitazione più essenziale e mesta. Le luci di Pasquale Mari sono misuratissime e decisamente funzionali, in alcuni momenti quasi caravaggesche, dando pienamente risalto a tutta la messa in scena e agli attori nella loro performance. Gli effetti sonori e le musiche di Arturo Annecchino chiudono, anzi stringono il cerchio che cinge la narrazione.
La storia è sicuramente nota ai più, grazie anche al film di Rob Reiner, e alla prova recitativa di Kathy Bates (vinse l’Oscar): Paul Sheldon, scrittore di successo in virtù della serie di romanzi che narrano le drammatiche vicende di Misery Chastain, lascia il suo ritiro fra le montagne del Colorado dopo aver finalmente terminato un nuovo libro, totalmente discosto dalle sue opere precedenti. Ma poco dopo esser salito sulla sua Mustang, finisce fuoristrada a causa di una improvvisa tormenta. Per “sua fortuna”, all’incidente assiste Annie Wilkes, che lo salva da una morte certa. La premurosa Annie, infermiera di professione, si prende così cura di Sheldon nella propria abitazione, manifestando da subito uno spassionato amore per l’autore e l’eroina da lui creata, oltre a qualche bizzarria comportamentale e una propensione religiosa un poco spiccata. Ma che importa in fondo… Gli ha salvato la vita e si tratta solo di attendere il ripristino di strade e linee telefoniche (la storia risale al 1987). In fondo… è la sua ammiratrice più grande. Wilkes però non ha salvato unicamente Paul, ma anche il prezioso dattiloscritto che viaggiava con lui, e che comincerà a leggere. Ma che non approverà molto, dimostrandolo animosamente al suo assistito. Che a questo punto non può far altro che comprendere la pericolosità della situazione in cui si trova.
Situazione che precipiterà quando finalmente Annie avrà modo di acquistare l’ultimo capitolo della saga di Misery, la cui lettura determinerà un’escalation di terrore, follia e violenza. O meglio. Dovrebbe determinare un’escalation di terrore, follia e violenza, che rimane però un poco disattesa, a fronte di una vena a tratti più da commedia della sceneggiatura. Una certa ironia è presente nella storia, e in particolare nel personaggio di Annie, anche cinematograficamente; ma qui risulta decisamente più presente, più spinta, e supportata anche dal vivace sarcasmo di Sheldon. Una considerazione mossa anche nelle critiche d’Oltreoceano, quindi forse voluta dallo stesso Goldman.
Lo spettacolo risulta godibilissimo, ma chi si aspetta una tensione costante lungo i 130 minuti di rappresentazione rimane un po’ spiazzato dall’alternarsi di battute e dramma.
Detto questo, Arianna Scommegna è strepitosa, in un ruolo decisamente impegnativo, pieno di registri esasperati, picchi emotivi continui, irruenza fisica, sempre credibile nello salire e scendere dentro l’emotività di una donna altamente disturbata, che cela probabilmente episodi passati tremendi, e che si ritrova fra le mani l’oggetto dei suoi più ardenti desideri, attraverso il quale vive e sogna un riscatto illusorio, e dal quale si sente mortalmente, inaccettabilmente tradita (fantastica Scommegna quando, al cadere dal palco di un oggetto nell’impeto di una scena, si rivolge imperiosa a una spettatrice in prima fila per farselo restituire).
Aldo Ottobrino si dimostra un ottimo compagno: nonostante il ruolo lo veda pressoché immobile, la presenza scenica non perde di intensità, vigorosamente in ricerca della propria salvezza, tenendo testa, se pur nella paura, alla propria carceriera. Le possibili metafore di questo rapporto sono molteplici, e vanno aldilà della costruzione di personaggi e impianto narrativo: la rappresentazione del processo creativo, della connessione tra artista e ispirazione (o musa), il confronto fra integrità artistica e fama, una metafora delle dipendenze attraversate da King, la paura dell’eccessivo successo e del non riuscire a perpetrarlo, il percorso per liberarsi da schemi o da ossessioni.
Personalmente, vedo comunque in Wilkes una possibilità di cambiamento per Sheldon; con metodi estremi sicuramente, ma forse necessari per far sì che si raggiunga lo scopo. Possibilità che viene colta, ma forse non del tutto, come pare suggerire il finale. O che forse potrà e dovrà ripetersi. Perché Misery non può morire.
Chiara Vecchio
Fotografia di Alice Pavesi