“Misericordia” di Emma Dante al Teatro Argentina
Il regista britannico Peter Brook ha detto: “Per fare teatro la vita deve essere presente in maniera più forte”, ed è proprio questo rigonfio di esistenza a caratterizzare la ‘fabbrica d’amore’, chiamata “Misericordia”, altra superba regia firmata da Emma Dante. Lo spettacolo, atto unico di un’ora, in scena al Teatro Argentina fino al 10 settembre, racconta di un interno familiare degradato, al limite del decoro e della dignità umana. Ciò è tradotto dall’assenza di scenografia, una costante nei lavori della regista palermitana. Gli unici elementi presenti sono quattro piccole sedie di legno pieghevoli, il resto è “munnizza”, montagna indistinta di vesti lacerate, frammenti di giocattoli e oggetti ormai consunti. Davanti ai nostri occhi abbiamo tre donne di facili costumi che di giorno sferruzzano a maglia, e al tramonto offrono sulla soglia di casa i loro corpi decadenti; insieme a loro vive un ragazzo nato settimino, di cui le donne si prendono cura con molta dedizione e in maniera solidale. Il luogo, un tugurio fatiscente, ricorda un ventre oscuro che cela qualcosa di terribile.
Arturo (Simone Zambelli) è un “picciutteddu” spastico, coperto di tic, non parla, ma esterna febbrilmente le sue emozioni con movimenti frenetici che si susseguono in una serie di immaginifiche danze. Gira forsennatamente su se stesso. Il suo è un corpo che non mostra fatica, ma che sprizza gioia e che ride rivolto al cielo. La fisicità è deformata, sgraziata, riflesso di una storia che smuove gli animi, ma allo stesso tempo li intenerisce. Arturo, infatti, è stato concepito da una madre sopraffatta da un’atroce violenza, colpita ripetutamente a calci e a pugni da un “Geppetto” del quartiere dai guanti bucati. Anna (Leonarda Saffi), Nuzza (Manuela Lo Sicco) e Bettina (Italia Carroccio), amiche della vittima, crescono il ragazzo con grande spirito di sacrificio, come se fosse figlio loro. E Arturo, il pezzo di legno accudito da questa triade matriarcale del profondo Sud, si ribalta alla fine della favola contemporanea in un bambino che, aspettando con ansia la banda del paese, in uno strazio dolcissimo, riesce a pronunciare la sua prima parola: ‘mamma’. Il linguaggio è una fusione ben calibrata tra corpo e verbo. Si potrebbe parlare di lavorio alla genesi della parola. Attraverso un serrato dialetto, si percepiscono i diverbi delle tre donne alle prese con le infelici conseguenze della povertà, ma anche tutte unitamente tese a realizzare il più puro atto d’amore, consegnare il loro figlio adottivo a un futuro migliore. Altro potente strumento utilizzato è la musica, le diverse arie sonore, poche ma ben distinte, guidano gli attori nella cavalcata di atmosfere ironiche e grottesche per tutta la durata.
“Femmina penso, se penso l’umano”, è un verso della “Ballata delle donne” di Sanguineti che entra a pieno titolo tra le note di regia dello spettacolo. È una poesia che parla di culla, di pancia, di pace, di terra. Un umano che ha a che fare con la sua sconfinata solitudine. Eppure un inno all’esistenza che sboccia dal buio della miseria. Quel buio che precede la vita, come la nota precede il silenzio musicale. In fondo, il vero gesto misericordioso della storia narrata è quello destinato allo spettatore. È lui che più di ogni altro deve accogliere e custodire questo parto. È a lui che viene affidato un importante compito di responsabilità: non rimanere indifferente, ma continuare a coltivare, anche dopo essere uscito dal teatro, un sentimento d’amore e di solidarietà verso il prossimo e verso ciò che lo circonda.
Diana Morea