“MISERIA E NOBILTÀ” CON LELLO ARENA AL TEATRO ELISEO
Il capolavoro teatrale di Eduardo Scarpetta, composto nel 1887, torna con un riadattamento di due atti curato da Lello Arena e Luciano Melchionna al Teatro Eliseo di Roma, dove sarà in scena fino a domenica 20 gennaio.
La trama, come noto, prende le mosse dall’amore del marchesino Eugenio (Raffaele Ausiello) per Gemma (Marika De Chiara), talentuosa ballerina del San Carlo, figlia di un parvenu, un cuoco arricchito (Tonino Taiuti). Il padre di Eugenio, il marchese Ottavio Favetti (Fabio Rossi), ostacola il matrimonio proprio per le umili origini di Gemma. Eugenio allora si rivolge a Felice Sciossaciammocca (Lello Arena) e a Pasquale (Andrea de Goyzueta), entrambi tirano avanti in uno stato di degrado e miseria e tentano di vivere (o di sopravvivere) con ogni espediente. I due, con le loro rispettive famiglie, sono assoldati come finti parenti nobili del marchesino. La sceneggiata si complica, perché il vero Marchese Favetti è anche lui innamorato di Gemma e, con lo pseudonimo di Don Bebè, la corteggia. Alla fine, il figlio Eugenio scopre il libertino interesse del padre per Gemma e minaccia uno scandalo, ottenendo, dulcis in fundo, l’assenso paterno alle nozze.
Nei panni del protagonista, Felice Sciosciammocca, troviamo Lello Arena con un’interpretazione nuova e ben riuscita. La capacità dell’attore sta infatti nell’offrire una resa originale del personaggio, compito davvero arduo se si tiene conto del fatto che il pubblico è inevitabilmente indotto a un confronto con la precedente interpretazione, quella magistrale e irripetibile di Totò, nella trasposizione cinematografica del 1954. Non a caso, infatti, quelle celebri sequenze aggiunte dal genio di Totò, mancano o sono modificate: la scena della scrittura della lettera per un paesano è soppressa; lo stesso vale per l’equivoco della macchina fotografica. Inoltre, la sequenza dell’abbuffata di spaghetti, entrata nel pantheon del cinema italiano, è solo fugacemente evocata: un brutale e famelico assalto a un pasto buttato da uno strappo nel fondo scena. D’altro canto, una delle sottili peculiarità di questo riadattamento è la raffinata capacità di traghettare una commedia composta nella Napoli post-risorgimentale in una dimensione moderna, seguendo il filo rosso della miseria, di ieri e di oggi. Le parole di Peppiniello (Veronica d’Elia), «I bambini non dovrebbero mai impugnare gli strumenti di lavoro, ma solo matite colorate» ammoniscono contro il criminale sfruttamento del lavoro minorile. Interessanti anche le tirate declamatorie di Felice, non a caso qui professore e non più scrivano, sull’incapacità di usare la lingua italiana, sull’ignoranza dilagante e sulla decadenza delle istituzioni scolastiche. Un apprezzamento particolare va fatto a due personaggi femminili: l’esilarante Concetta (Giorgia Traselli) e la perfida Luisella (Maria Bolignano). Al di là di una resa eccellente dell’inviperita litigiosità delle due donne, bisogna apprezzare le sagaci le scelte linguistiche, improntate su una piacevole, originaria e briosa patina di dialetto napoletano, unita ai continui misunderstanding gergali.
D’effetto risulta la scenografia, curata da Roberto Crea: la miseria materiale della casa del povero Felice è resa sulla scena con uno spazio gretto, spoglio, ma allo stesso tempo ingombro di barriere, che metaforicamente rendono ostico qualsiasi dinamismo. Il secondo atto, si apre invece in maniera davvero teatrale con uno squarcio di questo velo di miseria, che rivela il candido spazio razionale della casa del cuoco. Nei costumi, curati da Milla, prevale un ironico e istrionico gusto futurista; di particolare rilievo è l’abito del Principe di Casador, quasi un iperbolico remake comico della raffigurazione di Enrico VIII. Lo spettacolo, interpretato quindi da Maria Bolignano, Tonino Taiuti, Giorgia Trasselli, Raffaele Ausiello, Veronica D’Elia, Marika De Chiara, Andrea de Goyzueta, Alfonso Dolgetta, Sara Esposito, Carla Ferraro, Serena Pisa, Fabio Rossi, Fabrizio Vona, sotto la sagace direzione di Lello Arena e Luciano Melchionna, coniuga divertimento e ragionamento nel pubblico, celando dietro una vena comica partenopea una riflessione più profonda sulla miseria, sociale o materiale, ma, in fin dei conti, ciclica e umana.
Lorenzo Sardone
Foto di Mario Pellegrino