“Minchia”, di Salvatore Cannova, al Teatro Bellarte di Torino
Anche quest’anno abbiamo e avremo la fortuna di seguire la stagione di Fertili Terreni, intitolata Intelligenza Naturale, che unisce tre realtà e altrettanti luoghi torinesi: ci sono Off Topic, il cimitero sconsacrato di San Pietro in Vincoli, e infine Bellarte, in via Bellardi, il più periferico e pertanto anche il più tenace, sotto tanti punti di vista.
L’ultimo spettacolo che abbiamo visto lì, prima nazionale su tre repliche dal 24 al 26 novembre, s’intitola Minchia – da intendersi come intercalare della Trinacria – ed è la storia di un bambino, poi ragazzo e infine uomo, e dei suoi viaggi, che ricalcano il topos dei nostoi greci: non meri spostamenti, dunque, ma ricerche, scoperte, collisioni, ritorni. Perdere il ritmo e ritrovarlo, ricrearlo. Antonio ha un soprannome per ogni nazione in cui ha vissuto, e da ogni luogo si porta via delle consapevolezze in più, come solo chi migra si ritrova davvero ad imparare. La Sicilia, poi il nord Europa, la Spagna, la Germania, poi Parigi… e i ricordi del passato: il nonno, la salsa, un pacco di fiammiferi…
Minchia celebra il coraggio dell’emigrato, che ne sa più dello stanziale e che però, parallelamente, si ritrova dilaniato, frammentato: dov’è casa? Cos’è casa? A quali valori rinunciare, e per sposare quali ideali? Antonio D’Angelo riesce in modo impeccabile a trasmettere questo senso di inadeguatezza che poi, nel migliore dei casi, tramuta nell’idea rincuorante di essere forse più figli del mondo che di una bandiera. La sua capacità di gestione del personaggio è encomiabile, la resa gestuale e vocale cattura l’attenzione dell’astante, invitato a empatizzare con questi viaggiatori anche al di fuori del teatro.
La regia è di Salvatore Cannova, le musiche di René Aubry, le luci di Gabriele Circo. La produzione è di Tedacà (di stanza a Bellarte) e Teatro Dimitirammu. L’occasione è densa, commovente, e di facile fruizione: la proposta risulta molto suggestiva.
Davide Maria Azzarello