Milano: fino al 12 marzo, il teatro Elfo Puccini vibra di “Rosso”
“Rosso”. Il colore dell’Urgenza, dell’Impeto, della Pulsione, del Palpito, della Frenesia, dell’Azione. Null’altro può rappresentare, identificare, rendere visivamente il turbine interiore. E per l’artista quel moto intestino è ragion d’essere, il sangue che lo ossigena.
“Di una sola cosa al mondo io ho paura, che un giorno il nero inghiotta il rosso”.
L’assenza di quell’impulso, l’esaurirsi di quel soffio divino fa temere il conseguente perdersi nell’oblio. A pronunciare queste parole in scena è Ferdinando Bruni, che presta nuovamente volto, anima e corpo a Mark Rothko, Maestro dell’espressionismo astratto del secolo scorso, nella pièce pluripremiata di John Logan, prestigioso autore e sceneggiatore statunitense, tradotta da Matteo Colombo, portata nel nostro paese proprio dalla produzione del Teatro dell’Elfo poco più di 10 anni or sono. E, che nelle sue riedizioni, trova sempre grande riscontro.
Markus Yakovlevich Rothkowitz, questo il nome all’anagrafe, è diventato negli ultimi decenni in particolare uno dei giganti della storia e del mercato dell’arte. Un uomo dal vissuto complesso, dall’indole tormentata, ricercatrice. Dedito al proprio mestiere e alla propria visione con un approccio cultuale, solenne, totale. Lo spettacolo è permeato dalla sua personalità; la narrazione si ispira all’episodio più noto della carriera del pittore: la commissione che ricevette per il ristorante Four Seasons dell’allora in costruzione – siamo nel 1958 – grattacielo Seagram, ubicato nel cuore di Manhattan. 7 tele di imponenti dimensioni, per un compenso di $35.000,00 dollari. Commissione accettata con l’intento di scuotere le anime degli avventori. Volontà di essere nota discordante, disturbante. Giudicante quell’alta società, così vacua, votata all’effimero, ridondante e deleteria. 7 opere vestite da grandi campiture del rosso e del bruno dell’angoscia, della disapprovazione, del disgusto. Come tracce ematiche coagulate. Testimonianti il delitto delle coscienze.
Lo spettacolo trasporta nello studio di Rothko, fra telai, pennellesse e pigmenti in preparazione, introducendo gli spettatori nell’isolamento intellettuale del protagonista con l’arrivo a Ken, Alejandro Bruni Ocaña, giovane aspirante artista che si propone al Maestro come assistente. Il timore, lo smarrimento, la curiosità e il timido disappunto iniziali del ragazzo sono riflesso del sentire del pubblico, di fronte a quest’uomo criptico, burbero, iroso. Il crescente rapporto fra i due, vivificato dalle riflessioni e dalle condivisioni estetiche, scardina man mano le insicurezze di uno e le resistenze dell’altro; facendosi specchio a vicenda, in un incontro-scontro generazionale, caratteriale e artistico, i due protagonisti verranno a fare i conti con i propri demoni interiori, nonché con la professione dell’Arte, estremamente esigente nei confronti di chi la esercita.
Regia, scene e costumi di Francesco Frongia, insieme alle ottime performance recitative, confermano la capacità di quest’opera di immergere chiunque dentro questo denso colore e i suoi sbalzi interpretativi, metafora del travaglio dei personaggi.
Ma soprattutto, gli spettatori sono partecipi del misterioso atto creativo, sia attraverso i dialoghi sia letteralmente, nel momento in cui Mark e Ken si buttano a capofitto nella pittura: i loro gesti travalicano la superficie circoscritta, tingendo idealmente ogni cosa intorno con l’intensità della loro azione. Compiendo così il vero scopo dell’Arte.
Chiara Vecchio
Fotografia di Luca Piva