Michele Spotti dirige il concerto di Capodanno per il Regio di Torino
Due sere fa, per San Silvestro, siamo stati al Conservatorio Giuseppe Verdi di Piazza Bodoni, a Torino, per un’occasione musicale molto piacevole. Si era lì per via di quello che è stato definito Teatro Metropolitano: il Regio, infatti, non ha ancora concluso l’intervento di restauro da otto milioni e mezzo finanziato dal Ministero della Cultura; dunque fino a settembre di quest’anno la musica sarà itinerante: sono stati pertanto coinvolti, tra gli altri, le Officine Grandi Riparazioni, il Teatro Alfieri, l’auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto, l’auditorium Toscanini della RAI, il Teatro Colosseo e, appunto, il Conservatorio.
Ore diciotto. Super-iper-greenpassati, gli ospiti varcano le soglie del tempio, e per i fedeli che hanno dimenticato la FFP2, c’è una maschera che le distribuisce. La sala concerti, in stile liberty, è molto raccolta: meno di settecento posti fra platea e galleria. L’acustica sembra svilupparsi su raggi brevi, densi, e non su onde o cerchi. Dirige l’orchestra Michele Spotti, classe 1993, curriculum fitto nonostante la giovane età. Il programma prevede il concerto in mi minore per violino e orchestra di Felix Mendelssohn-Bartholdy, con Andrea Obiso solista entusiasta, e la sinfonia n° 41, Jupiter, di Wolfgang Amadeus Mozart. Due rivali ricongiunti, entrambi scomparsi forse troppo presto. Mozart e Mendelssohn: una figura ormai leggendaria, e un artista parzialmente negletto (probabilmente anche per via delle origini ebraiche). Con il compositore di Amburgo, il pubblico può lasciarsi trasportare da una composizione melodica ma veemente, le cui note sono state organizzate su piani distinti, non continuativi, che però fra un arzigogolo e l’altro si diluiscono appena. Il solista non è strutturale, ma fondamentale: è lui a guidare, alla pari del direttore, gli altri trentasei componenti. Obiso, con una certa smania quasi ballabile, comprende il proprio ruolo e traccia il percorso per i colleghi. Gli applausi scrosciano per parecchi minuti. Con Jupiter, invece, gli ascoltatori conoscono un genio di Salisburgo ormai maturo: è il 1788, Mozart ha trentadue anni e gliene restano appena tre da vivere (ma gli mancano ancora Così fan tutte, Il flauto magico, vari concerti e, soprattutto, la messa da requiem incompiuta eppure forse insuperabile). Di questa sinfonia non si conosce il committente, né si sa chi abbia deciso di dedicarla, negli anni a venire, proprio a Zeus. La musica irrompe, quasi in medias res, per stabilire un’atmosfera umorale, per certi versi lunatica, dove c’è spazio per tutto e tutti: le marce si affiancano agli scherzi e alle risa, in un turbinio tanto elegiaco quanto deliziosamente profano. È un pot-pourri di fragranze eterologhe che non stridono, ma che anzi cooperano per elevare le atmosfere al livello di una libertà fresca, giovane ma indubitabilmente coscienziosa. E Spotti, qui, è sicuramente un abile coordinatore, un arbitro responsabile che si adatta in maniera efficace e soddisfacente ai passaggi di Mendelssohn-Bartholdy.
In tutto, il concerto è durato poco più di un’ora, perché poi ognuno aveva anche le sue cene e i veglioni, ma alcuni (tra cui chi scrive) avrebbero sinceramente gradito un bis, non tanto di Mozart e delle sue implicazioni e complicazioni difficili da rendere, quanto di Mendelssohn, che forse meriterebbe un più ampio tributo e che in generale offre spunti musicali di carattere forse meno grandioso, ma più introflesso e più conciliante.
Davide Maria Azzarello