“MDLSX”: manifesto artistico di un corpo in rivolta
Andiamo a teatro per cercare un nuovo respiro, un momento che faccia sobbalzare il corpo e ansimare, cerchiamo una piccola verità nella dinastia di menzogne che franano sul quotidiano. Noi spettatori abbiamo bisogno di ritrovare la fiducia incrollabile nel corpo dell’attore, di carne viva che ci metta faccia a faccia con l’enigma delle nostre vite, con la possibilità del diverso, per suggerirci l’idea del divino che è dentro di noi. In questa visione dell’arte, come chiave universale per la rivelazione, si inserisce il percorso dei Motus, compagnia fondata nel 1991 da Enrico Casagrande e Daniela Francesconi Nicolò, che da anni lotta con tenacia per rendere il proprio lavoro al tempo stesso esemplare e sperimentale. Quando si assiste ai loro spettacoli si afferra subito la verità di ciò che stanno facendo, e la necessità profonda di ri-vitalizzare la comunità che partecipa all’evento, come se i nostri pensieri politici fossero stati costretti troppo a lungo dentro l’armadio, proprio come il nostro amore reciproco. Occorre, dunque, coraggio per rispecchiarsi nel corpo dell’altro, per investigare senza alcun timore il linguaggio del corpo e per purificare questo linguaggio dalle sue ostinate forme sessiste.
È ciò che fa “MDLSX”, visto il 19 maggio all’Angelo Mai, spettacolo acclamato in tutto il mondo. Titolo indefinibile, con difficoltà di pronuncia, in cui la performer Silvia Calderoni, esplorando i limiti del dicibile e del visibile, sembra chiedere al pubblico: ora che mi guardate, ditemi, chi sono? E chiedetevi: voi chi siete? Ci invita ad arrivare insieme al punto in cui arte e azione sociale, utopico e pratico, diventano una cosa sola. Ogni piccolo gesto che compie è una fondamentale e inequivocabile scelta, anche politica, è la capacità incredibile di trasformare le idee in gesti con estrema precisione e intelligenza compositiva, per esprimere la molteplicità di tutte quelle parti che ci compongono e che sono concepite per essere “cantate lungo le barricate dello spirito umano”, come scriveva Julian Beck. Un karaoke italiano ad una festa di paese, una trasmissione, una lunga lista di canzoni, e poi la scelta: “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”; forse una bambina non avrebbe scelto questo titolo, ma nella scelta di Silvia, caschetto biondo e occhi vispi, che ci appare in un filmino della pre-adolescenza a inizio spettacolo, c’è già l’incipit della natura queer del suo lavoro e della sua essenza di persona. L’incontro con il teatro sarà fatidico, perché è qualcosa in cui il suo corpo può agire e modificare elementi in una continua metamorfosi creativa. Lo spettacolo dialoga con “Middlesex”, romanzo dello statunitense Jeffrey Eugenides, storia di Calliope (successivamente Call), ermafrodito, nato maschio in corpo di donna, e delle sue peripezie, dagli esami medici per l’accertamento del genere, alla fuga, dalle umilianti esibizioni in locali burlesque, al ritorno a casa, tra autostop e stazioni di polizia.
A partire da questo racconto la compagnia dei Motus realizza un collage di diversi testi, drammaturgicamente intrecciati uno all’altro, e che in qualche modo coincidono con una biografia emozionale della performer. Si mescolano brandelli autobiografici a richiami letterari, da “Gender Trouble a Undoing Gender”, entrambi di Judith Butler, e anche “A Cyborg” Manifesto di Donna Haraway e il Manifesto Contra-sexual di Paul B. Preciado. Ma è soprattutto la parola depositata in un corpo cosciente della relazione con lo spazio come quello portato da Silvia Calderoni che permette di costruire un inno lisergico alla libertà di divenire, oltrepassando i confini del colore della pelle o dell’appartenenza a una Patria. Un inno lisergico bellissimo, un diario di viaggio costellato da luci stroboscopie, che si struttura su più di venticinque tracce musicali (tra cui i Rem, Smashing Pumkins, Talking Heads, Air, The Dresden Dolls, Stromae) con un dj set dotato di impianto audio, mixer e PC, mentre sul fondale uno schermo proietta tracce musicali, filmati, fiori nel loro sbocciare, e frammenti di testi.
MDLSX è una continua ricerca nel seguire ciò che si è, senza cercare di fermarlo, come fa la protagonista, che dopo aver letto di nascosto dalla propria cartella clinica la sua diagnosi, corre in biblioteca per vederci chiaro, apre un vocabolario medico e comincia a leggere, di rimando in rimando, termini come transgender, ermafrodita, eunuco, fino a giungere alla terribile definizione di “mostro”. Di fronte a questa scena arriva un pianto in gola che è difficile bloccare e t’acchiappa quella nostalgia tipica e rara nel teatro, che mentre vedi sai che non puoi saziartene né fermare quello che vedi. Dopo essersi avvolta nel triangolo argenteo che regna sulla scena, Silvia esce trasformata in una sirena, della quale, per la sua natura mitologica, è impossibile decifrare il genere. Al padre che – riaprendo la porta di casa alla figlia dopo la fuga, i capelli rasati, gli autostop e il burlesque – chiede: “non sarebbe stato tutto più semplice se fossi rimasta com’eri?”, Calliope/Silvia risponde: “Io sono sempre stata così”.
Se è vero che l’intero atto teatrale è un rituale concepito per rinnovare la nostra vitalità, per liberarci dalla morte, e ciò si compie con un respiro, ci sono dei rarissimi momenti in cui l’attore incarna una sua verità che diventa una delle crude verità dell’esistenza, disegna con un silenzio il battito di un attimo, e noi che lo guardiamo non possiamo che pregarlo di avere questo, anche se fosse per una volta, come cantano sul finale i The Smiths.
Diana Morea