Maria Sotterrata, nel limbo tra sopravvivere ed esistere
Sembra un giorno come tanti, a Gemona, uno di quelli che hanno il sapore di una semplice quotidianità di paese che sembra lontana e non sempre lo è. Ma non è un giorno qualsiasi. È il sei maggio 1976. E improvvisamente la casa in cui Maria cuce e accudisce i fratelli trema. “E poi il buio, e non c’è più niente”. É dal limbo delle macerie della sua casa, fra la vita e la morte, che hanno avvio i ricordi di “Maria Sotterrata”, in scena al Teatro Libero di Milano, dove si riavvolge il filo dell’esistenza minuta di una ragazza semplice che si affaccia alla vita: le cattiverie delle coetanee, la prima discoteca, l’amica che ha già visto e sperimentato tutto, i primi goffi approcci coi ragazzi, mentre le sue mani agili ricamano il sogno di fare la sarta, di partire per Parigi. La sua vita, però, racconta di un padre che non c’è, della fabbrica tessile, della vita logorante degli operai. Nell’immaginazione gli abiti colorati, nella realtà un amore che non fa in tempo a nascere, un viaggio mai intrapreso, una vita lasciata scivolare tra le dita.
Questo racconta Maria, mentre una divertente Morte col cappuccio nero di prammatica allunga le dita verso di lei, commentando in friulano con Federigo, il suo assistente scheletrito.
Nella cadente e accurata scenografia di Antonella di Iorio e Verdiana Moretti a dare corpo a Maria è una Valeria Sara Costantin che da un saggio di talento attoriale sfacettandosi in tutti i personaggi che animano la vita del paese, in un attento e credibile equilibrio tra dialetto e italiano, attraverso una girandola di voci e di cambi d’abiti senza posa. Riesce a riempire da sola la scena, scivolando agilmente tra il registro comico affidato a una morte anch’essa incastrata sotto le macerie e l’empatia dell’evocazione di una pagina storica che riesce a emozionare senza mai scadere nel patetico, nell’emozione facile e sopra le righe.
La regia di Valentina Malcotti sfrutta abilmente la poliedricità dell’interprete, disegnando una messincena mai statica e che sa essere originale senza bisogno di voli pindarici o costruzioni complesse. Bastano elementi semplici, come i fili da cucito, a rendere efficace la resa di un testo elegante e molto ben scritto, firmato Davide Lo Schiavo, che sfrutta con grazia l’espediente di una vicenda dolorosamente reale per disegnare il momento di confine tra la morte delle occasioni perdute e la vita possibile nel coraggio di quelle da afferrare con le unghie.
La compagnia Chronos3 costruisce un lavoro accurato e di valore, che dimostra la vitalità del teatro italiano e la qualità che esso sa produrre anche (forse soprattutto?) lontano dal blasone dei nomi più noti. Maria Fantìn si eleva su un passato che muore e così la libera, ed è un’efficace metafora, con la sua nuova determinazione a guardare avanti persino sopra la tragedia, che – evitando accuratamente la retorica – dice molto anche di un presente in cui: “non c’è da piangere, ma da ricostruire”.
Chiara Palumbo
Foto Archivio Teatro Libero