MALEDUCAZIONE TRANSIBERIANA, O DEL TEATRO CONTEMPORANEO
Fino a qualche anno fa, andando a teatro ci si preparava ad assistere a uno spettacolo, offrendo a questo termine un significato tendenzialmente definito e univoco: una performance artistica nel corso della quale erano le corde emotive dello spettatore a essere chiamate in causa in maniera sostanzialmente esclusiva. Il teatro, fin dall’antichità era infatti ritenuto per sua stessa definizione il regno del dionisiaco, dell’istintuale, dell’inconscio nelle più estreme e libere manifestazioni. Il luogo della leggerezza o della commozione, talvolta anche della riflessione ma passando attraverso le sue realizzazioni emotive: la rabbia di un’ingiustizia, lo strazio di una tragedia o la soddisfazione di una conquista sono sempre state il cardine anche del cosiddetto teatro civile.
La contemporaneità, è sempre più evidente, sta però portando un cambiamento di segno. Forzando i confini dell’abitudine. È così che si crea spazio per fare strumento drammaturgico di discipline tradizionalmente lontane dalla scena. L’economia, la sociologia, persino la pedagogia, trovano spazio di messa in scena. Il regno del dionisiaco si apre all’apollineo, al razionale, persino nei suoi aspetti più rigorosi, che ci si aspetterebbe riservati agli addetti ai lavori.
Lo ha fatto Bonn Park, con “Il più solo solissimo George di tutti i tempi”, ma è con la Maleducazione Transiberiana di Davide Carnevali che questa nuova drammaturgia trova sintesi compiuta e applicazione nitida.
Il testo di Carnevali, in scena al Teatro Franco Parenti, trova un equilibrio sottile: non ha bisogno di rinunciare all’istintivo, all’empatico, soprattutto nella forma dell’ironia dissacrante, della risata di gusto, della parodia. Ma può permettersi per contro, in modo in realtà estremamente serio, di parlare di fluttuazioni di mercato, delle teorie di Fourier, di capitalismo e marketing. Di cosa davvero sta sotto quello che ci circonda ogni giorno e di cui nemmeno ci accorgiamo.
Così, che oggetto della rilettura dei messaggi profondi – e celati – della società contemporanea siano i cartoni animati e le favole della buona notte, da Cenerentola a Peppa Pig passando per Holly e Benji, diventa molto più che un divertente pretesto, e una bambina di quattro-anni-e-mezzo-quasi-cinque che parla come un trattato di economia politica molto più che un simpatico paradosso. Il divertissment che distorce e gioca con la poesia dei canoni diventa così una graziosa punteggiatura intorno a frammenti legati eppure conchiusi (di nuovo, vicini a Park) dove la scarpetta di cristallo si svela come metafora della bulimia di scalata sociale, i due dodicenni nipponici coi nomi americani e il campo infinito si scoprono umani una volta appese le scarpette al chiodo, e la maialina più amata dai bambini degli anni dieci del Duemila è chiamata a prendere coscienza della sorte che solitamente attende i suini suoi simili fuori dai colori vivaci dello schermo.
Il già solido talento di tre giovani e lucidissimi interpreti come Fabrizio Martorelli, Silvia Giulia Mendola e Alberto Onofrietti sostiene uno spettacolo che fotografa – col sorriso amarissimo del più sincero dei guitti – quello che siano e quello che ci educano a essere, fin dalla più tenera infanzia. E che funziona perché dimostra evitando con la stessa cura la spocchia di chi pretende di insegnare – perché ogni pretesa verità assoluta, porta, in fondo, in sé il germe del ridicolo – e la semplificazione purchessia della vasta schiera dei presunti esperti alfieri del compiacimento del pubblico, della necessità che il teatro si faccia sempre più inconsistente per restare vivo.
Maleducazione Transiberiana, invece, offre un suggerimento forse non nuovo, eppure spesso costretto al silenzio. Se un ambiente si è fatto asfittico, le strade nuove non resta che costruirle, con l’audacia, l’incoscienza, il rischio, del tentativo. Dove poi esse conducano, saranno i prossimi bambini a stabilirlo. Magari proprio attraverso i messaggi dei propri cartoni animati preferiti.
Chiara Palumbo