Madonna Merini: una crocifissione amorosa a teatro
Perché vergine, se io sono madre di tutti? Perché madre, se io sono una vergine senza confini?
Sabato scorso, il 20 di marzo, era la vigilia della giornata mondiale della poesia, quest’arte bistrattata e ormai negletta ma sempre pronta ad illuminare il cammino di quei pochi, saggi proseliti che invece vi si dedicano con ardore. Per festeggiare, il Café Müller di Torino ha scelto niente meno che la celeberrima poetessa meneghina Alda Merini, prolifica autrice che domenica, con l’equinozio, avrebbe compiuto novant’anni (Sono nata il ventuno a primavera, ma non sapevo…). Lo spettacolo per la verità risale al 5 marzo 2018, quando fu realizzato al Teatro Sociale di Brescia, ma lo streaming è stato caricato su Nice Platform come gli altri del cartellone torinese. Sul palco, una straordinaria Arianna Scommegna diretta da Paolo Bignamini per il Teatro degli Incamminati.
La tematica è complessa, spinosa, stratificata, trasversale alle epoche, e fondamentalmente si sviluppa attorno a quella narrazione sfasata che ancora oggi si propone della Vergine Maria. Ora, è logico che per un teologo o un letterato la problematica non si ponga in questi termini, ma in questa sede si cerca, per quanto possibile, di rispettare la cultura della folla, la quale reclama evidentemente una prospettiva semplice, ma non per questo banale. I dubbi sull’interpretazione, per quanto riguarda la Bibbia e la sua mitologia, sono innumerevoli (così come per gli altri testi sacri), ma in quest’occasione ci soffermeremo sulla percezione che noi tutti abbiamo, chi più chi meno, della Madonna: il culto mariano è sicuramente controverso, non riguarda neanche tutti i cristiani, e comunque l’attenzione che viene riservata a Maria di Nazareth si esaurisce tutta attraverso la logica della madre per antonomasia, felice di partorire un figlio di cui percepisce il tragico destino. Per aiutarci a superare questa visione oggettivamente sminuente di una figura che comunque per secoli è stata preponderante a livello di formazione culturale, il Magnificat della Merini può essere un buon inizio, o almeno potrebbe esserlo se solo l’editore si decidesse a ristamparlo dato che è impossibile trovarlo. Ma al netto di questa necessaria polemica, il testo del Magnificat, che poi è anche il titolo della rappresentazione di Scommegna, offre davvero un’ampia rete di spunti che riconducono essenzialmente ad una figura diversa, più articolata; non una fragile abnegante che rispetta gli ordini di un dio che all’epoca pareva interessato solo all’idea di fondare una nuova religione… no, Maria era una persona vera, viva, poi semidivina; un genitore mistico e ormai leggendario ma poi anche una povera fanciulla ebrea; credente, sì, ma anche serva (per scelta, si è sempre detto… ma dove finisce la paura? E il dolore? Quelli non li raccontiamo mai a dovere). Quintessenza d’ossimoro: vergine incinta e non di un seme, ma del verbo, della vita stessa. La donna e l’amante di Dio, ovvio, ma anche l’eterna sconfitta: se Giuseppe l’avesse abbandonata dopo la lieta notizia sulla gravidanza, Maria sarebbe stata lapidata come un’adultera qualunque.
Il testo di Merini viene interpretato magistralmente da Scommegna, che parla direttamente con Dio, accusandolo di averla condannata, non solo santificata. Una donna è ben più del suo utero, e la sua realizzazione non può sbocciare esclusivamente con la gravidanza: Maria lo spiega a Dio, che per imbarazzo tace – com’è possibile che proprio lui, onnisciente e onnipotente, non si sia mai curato di gestire meglio la convivenza tra gli Adamo e le Eva d’ogni secolo? – e poi si slancia sul pubblico, di modo che gli spettatori si chiedano in che misura compartecipano alla crociata contro l’uguaglianza fra i generi. Maria è lo scudo di una guerra che non è santa: si barcamena tra il sacro e il profano, disperata, e ci racconta di quando venne l’angelo, e non per annunciare, ma per aggredire: si deve coprire la faccia, le orecchie, gli occhi, per non sentire il rombo delle sue ali, e allora, anche a distanza di anni, quel lenzuolo dove aveva avvolto il suo pargolo diventa prima quel paio di frastornanti ali angeliche, e poi il suo stesso mantello, e infine il sudario suo e di suo figlio. E implora: non prendete mio figlio, tanto sconvolta che quasi maledice le folle farisaiche che lo violentano. Non sappiamo se quella gravidanza fosse davvero, fino in fondo, voluta, ma in ogni caso ora che l’abbiamo resa una madre, dobbiamo rispettare il suo dilaniamento, e capire che mentre il Cristo chiederà a suo padre Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?, da qualche parte ai piedi della croce c’è una vedova vergine che invece domanda: Dio mio, Dio mio, perché non mi hai mai considerata? E insomma Scommegna ci racconta tutto questo, impersonando i versi della Merini con competenza e passione, accompagnata dai candidi e sinuosi passaggi di Giulia Bertasi alla fisarmonica. Affascinanti, infine, le monocromie luminose di Fabrizio Visconti, e la scena asettica di Francesca Barattini. Uno spettacolo convincente, detonante, da non perdere.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Federico Buscarino