“Macbeth, le cose nascoste” – Intervista ad Angelo Di Genio e Tindaro Granata
“Ci sono cose nascoste fin dagli inizi del mondo di cui sentiamo solo il fetido odore, celate in qualche caverna buia per proteggere l’uomo dalla sua debolezza”.
Un viaggio introspettivo nella mente dei personaggi del Macbeth shakespeariano, attraverso la parola e l’esperienza del loro pubblico/attori, che si aprono al mondo in una seduta psicoanalitica con il Prof. Giuseppe Lombardi. È questo l’esperimento riuscito di Carmelo Rifici in collaborazione con Angela Demattè e Simona Gonella nel “Macbeth, le cose nascoste”, in scena fino al 13 giugno al Teatro Argentina di Roma. Si analizzano in primis la violenza, sotto varie sfaccettature, e le conseguenti azioni atte a giustificarla; la cattiveria degli altri e soprattutto la nostra; il rapporto con i padri e la supremazia manipolatrice di cui la donna può essere maestra.
Ed ecco Maria Pilar Pérez Aspa, Angelo Di Genio, Alessandro Bandini, Tindaro Granata, Elena Rivoltini, Leda Kreider e Alfonso De Vreese che iniziano le loro sedute di analisi, mettendosi a nudo e scoprendo il passato e le proprie radici, riesaminando il rapporto con i padri, le difficoltà comunicative e le emozioni inespresse come è accaduto ad Angelo; ed evocando i poteri ancestrali legati ad antiche tradizioni contadine, in particolare della Sicilia vissuta da un Tindaro bambino.
Un lavoro molto particolare questo Macbeth che prima di vedervi nel confronto con il pubblico vi ha sottoposto a un confronto con voi stessi in un’indagine del profondo, avvalendosi della scuola di psicoterapia analitica junghiana con Giuseppe Lombardi e Luciana Vigato. E dai tuoi racconti, Angelo, possiamo parlare di una vera e propria reminiscenza, di un ritorno di “cose” rimosse, di pulsioni, del male interiore, passaggi necessariamente dolorosi. Come hai vissuto e come vivi questi momenti?
Angelo: Noi abbiamo affrontato le sedute di psicoanalisi con il Dott. Lombardi in maniera molto libera, molto aperta. Noi attori dello spettacolo eravamo stati convocati insieme ad altri attori con una e-mail, che è la lettera che fa da incipit allo spettacolo. Siamo stati invitati a sostenere queste sedute molto personali per affrontare determinate tematiche che permettessero di leggere gli archetipi di Shakespeare e del Macbeth, tramite la contemporaneità delle nostre vite, e siamo stati tutti molto liberi di lasciarci in qualche modo approfondire dalla psicanalisi junghiana del dottore, proprio perché sapevamo che andava a costituire in qualche modo parte della drammaturgia del progetto, senza sapere assolutamente in che termini. Quello che ci è stato chiesto era l’estrema libertà nel lasciarsi attraversare dalle domande e dalla seduta di psicanalisi. Io non ho mai fatto psicanalisi e quella è stata la prima seduta della mia vita e l’ho affrontata come tale, per cui ho veramente cercato semplicemente di vedere quanto questo meccanismo potesse funzionare in me, e sicuramente mi ha portato a rivivere dei momenti molto profondi legati soprattutto alla mia infanzia e alla mia adolescenza, di cui davvero avevo fino ad allora fatto fatica a parlare anche con le persone a me più care, ma credendo appunto nella catarsi che la psicanalisi può avere per la psiche degli attori e per la crescita di me come persona, prima ancora che come attore. Infatti ne sono rimasto molto colpito perché quando sei solo tu a conoscere una cosa non esce mai dalla tua testa e non la razionalizzi a parole, non diventa qualcosa di effettivo se non arriva a contatto con il mondo esterno. Questo mi ha fatto capire che nel momento in cui noi diciamo una cosa, bella o brutta che sia, finché non la esprimiamo non diventa reale. E aver fatto queste sedute ha fatto diventare reale anche per me il confrontarsi con alcune situazioni, pulsioni e meccanismi che si sono palesati nel mondo esterno; sicuramente è stato da una parte doloroso ma dall’altra anche necessario, per un momento di crescita non solo attorale per lo sviluppo di questa drammaturgia, ma anche da un punto di vista umano, proprio perché è un tipo di percorso spirituale che non avevo mai affrontato nella mia vita.
Un lavoro che nasce quindi dalla realtà, i cui elementi del passato e del presente legano con il Macbeth. Una rilettura superba a legare la vita al teatro e il teatro alla vita e che ha visto per voi una lunga preparazione e che inevitabilmente suppongo vada a influire sull’io dell’attore. Ti senti cambiato dopo questa esperienza?
Tindaro: Assolutamente sì, mi sento molto cambiato, ma tutti noi secondo me siamo cambiati dopo aver fatto questo spettacolo, perché la possibilità di fare un percorso di ragionamento, di analisi su se stessi, su quella che è la propria storia e i propri sentimenti e poi condividerli con il pubblico non è una cosa semplice, anche perché in quel momento diciamo che l’attore per natura è un essere che si espone totalmente perché mette il proprio corpo, la propria faccia, il proprio pensiero, mette tutto se stesso quando va in scena qualsiasi personaggio interpreti. In questo caso, a maggior ragione, sapendo che una buona parte di quello che noi recitiamo è veramente la nostra vita, questa condivisione diventa totale, come se noi facessimo entrare nelle nostre stanze segrete tutti gli spettatori che vengono a vedere lo spettacolo, quindi questo ovviamente ti cambia. Ti cambia in relazione a quello che tu racconti perché lo metabolizzi, lo elabori e lo ragioni in un altro modo perché c’è una condivisione, e ti cambia anche il fatto che il rapporto che tu cerchi con il pubblico è un altro tipo di rapporto, c’è una sorta di sincerità e di protezione che cerchi anche da loro. È un’esposizione totale, quindi sì, ti cambia totalmente. Cambia proprio il tuo rapporto con la scena. E questa è la cosa più bella.
Le usanze e le tradizioni della Sicilia sono sul palcoscenico. Tindaro continua a portare con sé la sua terra e la sua famiglia. Qual è il legame tra le vecchie usanze ancestrali arcaiche e le tre streghe del Macbeth? Qual è il legame tra il passato e il presente?
Tindaro: Tutte le tradizioni che noi abbiamo in Sicilia, anzi direi più in Italia che in Sicilia, fanno parte di un mondo pagano, un mondo antico che si ripete nei secoli dei secoli, negli uomini e nelle donne di tutti i tempi in maniera istintiva e naturale. E tutto questo è misterioso. Come mai Shakespeare ci parla di queste tre streghe che hanno a che fare con un mondo ancora più antico di quello dell’Inghilterra del periodo di Shakespeare del ‘500/’600? Questo è tutto misterioso. Non so perché ogni popolo abbia tradizioni che sono molto diverse tra di loro, eppure è come se fossero tutte collegate. È ovvio che tutto parte dalla terra, parte dall’origine, quindi tutte queste entità hanno a che fare con il mistero, con gli elementi naturali, quindi il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria, e per me – essendo appunto vissuto in un periodo storico in cui c’era un lascito da una cultura popolare contadina a una cultura contemporanea, moderna e cittadina, essere stato testimone di questo passaggio è stato un grande privilegio. Io cerco di portarlo il più possibile in tutti i miei lavori, anche nel mio modo di vivere quotidiano, dentro mi sento mischiato da credenze popolari, riti pagani, riti cristiani, cattolici: è la grandezza che mi è stata consegnata, io so di avere un tesoro per le mani appunto e, come dico nello spettacolo, è un tesoro molto bello, che spero di poter passare ai più giovani. Certo, tante cose le dimentico e le perdo anche io, perché non praticando questo mondo che è scomparso si fa più fatica, però l’uomo e la donna di oggi hanno bisogno di avere un filo conduttore che li leghi al passato, alla cultura arcaica. È necessario perché si vede che questo sradicamento dalle nostre origini ci porta ad avere una grande infelicità e una grande insoddisfazione. Tutto questo serve per riconnettere l’essere umano alla terra, al terrigno, all’origine.
Sulla scenografia scarna, ma illuminata dal bellissimo gioco di luci di Gianni Staropoli, così come anche nelle immagini proiettate a video, comincia a un certo punto a scorrere acqua. Ora acqua purificatrice, ora acqua che si muta in sangue. Cosa rappresenta l’acqua?
Tindaro: L’acqua è un po’ anche il liquido amniotico che c’è nella placenta. Ma è anche l’origine del male, da dove parte il tutto. L’acqua secondo me ha diverse funzioni. Uno perché il mondo delle streghe è un mondo liquefatto, tanto liquefatto che non si capisce se prima era terra e adesso è acqua, o che sostanza sia in fondo il mondo di cui noi parliamo. Non si capisce veramente. L’acqua racchiude in sé tutti gli elementi che, a un certo punto, hanno una fusione e diventano un’unica sostanza che può volatilizzarsi, asciugarsi, solidificarsi; è un elemento di per sé imprendibile e ingestibile. I nostri tecnici e il nostro ideatore Paolo di Benedetto, ogni volta che noi andiamo in scena, faticano a gestire l’acqua; quindi è un elemento che porta scompiglio, imprevedibilità e disordine e allo stesso tempo pace. Credo che il regista, Carmelo Rifici, abbia scelto questo elemento per questo motivo, perché uno spettacolo del genere non poteva non essere ambientato in un luogo o su una materia che non fosse acqua.
Oltre alla parola arcaica, troviamo forte potenza anche nel corpo, nei suoi movimenti, nella sua nudità, in un continuo crescendo. Un corpo quindi a simboleggiare una psiche che, grazie ai suoi continui mutamenti, può far volgere lo sguardo dello spettatore verso quelle aree profonde che legano collettivamente l’intera umanità. Qual è secondo te il risultato di questo connubio così significativo?
Angelo: Per me il lavoro sul corpo è stato come quello sulla parola arcaica e della sua potenza, che racchiude in se stessa sia il suo significato ma anche il suo contrario, perché è una parola più pregna, più piena di significati, al contrario della parola moderna che è completamente scarnificata anche del suo significato primario, non solo del suo contrario e del suo doppio. Il lavoro sul corpo è stato altrettanto potente e importante da analizzare proprio nel momento in cui va a simboleggiare una psiche in continuo mutamento che quindi è prima di tutto, soprattutto nel Macbeth che interpreto io, quello della caduta, della perdita e dell’avvicinamento all’infinito, all’animalità e al primordiale. È stato veramente qualcosa di molto profondo passare da un controllo dei propri sentimenti e quindi anche del corpo – che non esprimo nella prima parte delle mie scene – e arrivare poi a comprendere un percorso di conoscenza più grande del tutto, del futuro e del mondo dal primordiale, per trasformarsi in un corpo animalesco e cercare un’animalità nel corpo così come nella voce e nella parola. È stato molto interessante e significativo vedere questo nel momento in cui noi cerchiamo psicologicamente di arrivare a una conoscenza del tutto, sia del bene sia del male, e come il nostro corpo deve in qualche modo riappropriarsi della nostra forma umana, ma soprattutto della nostra forma ancestrale, quella più animale, per riuscire a avvicinarsi a Dio, che poi è quello che vuole Macbeth alla fine: essere sopra a Dio in qualche modo. Quindi è stato veramente un lavoro molto profondo e molto delicato, ma allo stesso tempo anche un lavoro di conoscenza di se stessi, con uno strumento attorale del proprio corpo e della propria voce molto significativo.
Come è stato questo ritorno sul palcoscenico? E come è stato tornare a Roma, all’Argentina?
Angelo: Tornare a Roma in teatro è sempre molto bello, perché lavorando tanto in questo mondo teatrale contemporaneo del 2021 – in cui il mondo teatrale romano sembra sempre un po’ distanziato da quello milanese e da quello napoletano, o siciliano ancora di più – è stato molto importante portare un modo di affrontare il teatro un po’ più europeo, in una città come Roma che lo ha accolto con una grande tensione, un grande amore, una grande eccitazione e anche con grandi consensi. Roma è sempre stata una città in cui ho portato moltissimi lavori, da “Geppetto a Geppetto” e “La bisbetica domata”, sempre con Tindaro, al Teatro Vascello. È sempre molto importante per il teatro e per gli spettacoli confrontarsi con il pubblico di tutte le parti di Italia, proprio perché se l’essere umano è in qualche modo sempre il medesimo per quanto riguarda la sua essenza esistenziale, dall’altra parte la cultura, la società, il contesto in cui la persona vive, quindi in qualche modo anche la città in cui la persona vive cambia il modo in cui poi l’individuo si rapporta agli spettacoli che vede. Roma è sicuramente una città che dà la possibilità di avere un metro di paragone, un metro per capire anche come un cittadino di Roma affronta determinati temi. Essere all’Argentina con la sua storia, tonarci dopo una pandemia, con una accoglienza di questo tipo è stato sicuramente emozionante, perché se prima davamo in qualche modo per scontato il rapporto tra palco e platea, dopo la pandemia abbiamo visto che ciò che davamo per scontato era un vero e proprio privilegio; adesso ci rendiamo conto che è necessario ritornare ad averlo per ricreare il contatto tra platea e palco, ciò che permette che l’atto e la catarsi del teatro avvengano.
Tindaro: Tornare a Roma è sempre per me molto emozionante, perché io ho iniziato qui il mio percorso di attore: è una città che mi ha accolto, mi ha fatto crescere e mi ha dato mille opportunità per diventare quello che sono oggi. C’è da dire che è una città molto grande e dispersiva e credo che la sua grandezza sia proporzionata alla sua bellezza impressionante. C’è sempre un’emozione particolare ogni volta che si arriva qui. Stare al Teatro Argentina è ovvio che mi fa battere il cuore in un modo particolare, perché io per molti anni ho lavorato di fronte a questo teatro, facevo il commesso in un negozio di scarpe, Marcus, quindi mi sono trovato per sei/sette anni della mia vita quasi tutte le mattine ad entrare in negozio, e una delle ultime cose che vedevo prima di entrare era proprio la facciata del Teatro Argentina. Quindi, essermi ritrovato dall’altro lato, quello in cui desideravo stare, mi fa sentire un privilegiato e un fortunato, e devo dire che mi emoziona molto, quando sono lì dentro, pensare che ero lì fuori quindici anni fa e sognavo di arrivare proprio qui, in questo teatro. Ora che sono arrivato sono felice. Non è un punto di arrivo per me, ma un punto di partenza. Quindi evviva, evviva, evviva.
Grazie a Tindaro e grazie ad Angelo per il loro tempo, il loro lavoro e la grande passione che li caratterizza in tutto quello che fanno. E non perdetevi questo “Macbeth” sui generis al Teatro Argentina di Roma fino al 13 giugno!
Marianna Zito