“Macbeth, le cose nascoste” al teatro Storchi di Modena
La violenza. Quella degli altri e la nostra. Da dove arriva? Cosa la provoca? Perché si impossessa di noi e ci stravolge, ci trasforma?
“Ci sono cose nascoste fin dagli inizi del mondo di cui sentiamo solo il fetido odore, celate in qualche caverna buia per proteggere l’uomo dalla sua debolezza.”
Carmelo Rifici e Angela Demattè lavorano sul Macbeth e nasce così “Macbeth, le cose nascoste” – in scena al Teatro Storchi di Modena dal 18 al 21 novembre, prodotto da Lugano Arte e Cultura – per scovare quello che si nasconde nell’animo umano. Utilizzano il feroce personaggio shakespeariano per scavare e scavare ancora, portando – con un eccellente esperimento – gli attori stessi della compagnia – in collaborazione con il Dott. Giuseppe Lombardi, psicoterapeuta junghiano, e Luciana Vigato, esperta di comunicazione non verbale e stili relazionali – ad aprirsi liberamente attraverso delle sedute di psicoanalisi.
“La richiesta che vi facciamo è di essere presenti in uno dei due giorni. È necessaria, da parte vostra, una grande disponibilità nel mettere in gioco la vostra parte più personale. Sarà, cioè, un viaggio che ciascuno di noi farà, singolarmente, sotto la guida di Giuseppe, per far trapelare ciò che il racconto archetipico di Shakespeare smuove nel profondo.”
Nasce così per ogni attore/personaggio un parallelismo tra l’interpretazione, la realtà onirica e il passato, quelle radici che ci resteranno per sempre avvinghiate addosso. E cominciano a parlare. Parlano al terapeuta, al pubblico e, questa volta, ad Angela Demattè, seduta su una sedia con le spalle verso il pubblico. Parlano e non si spiegano la capacità umana di scusare la violenza e di scusarla questa violenza soprattutto negli altri, di renderla quasi naturale, normale. Parlano di chi non esprime le proprie emozioni e non si scardina dal difficile e doloroso rapporto con il padre, di chi rimane legato alla propria terra o una violenza subita ed è incapace di apprezzare quello che ha adesso, quasi a sentirsi in colpa per quello che era prima. E ancora di chi rifiuta di voler essere madre di chi la propria madre l’ha persa e si ritrova a combattere con i propri i sensi di colpa. Ogni uomo – Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Alfonso De Vreese – a combattere con il proprio Macbeth interiore e con il proprio passato. Ogni donna – Maria Pilar Pérez Aspa, Leda Kreider, Elena Rivoltini – tra Lady Macbeth e le streghe, è incastrata nel mancato desiderio di essere madre e nell’innato potere di seduzione.
Infine, Alessandro Bandini è Fleance, la vittima sacrificale, a richiamare quel rituale di festa che vede l’uccisione del maiale, qui raccontata dai ricordi di Tindaro Granata. Da vittima a Ecate d’oro, da bruco a farfalla, questo è il suo destino.
Sulla scenografia essenziale di Paolo Di Benedetto, illuminata dal bellissimo gioco di luci di Gianni Staropoli, e nelle immagini proiettate a video scorre, a certo punto, acqua e ne siamo inevitabilmente attratti. Ora acqua purificatrice, ora acqua che muta in sangue. Acqua – dalle parole di Tindaro Granata (QUI l’intervista) – a rappresentare il liquido amniotico che c’è nella placenta, ma anche Acqua come origine del male, da dove parte il tutto. Un elemento difficile da gestire, in grado di dare, al tempo stesso, un senso di pace e di disordine.
Non è stato da meno, della mente o della parola, il lavoro sul corpo. “Il lavoro sul corpo” ci racconta Angelo Di Genio “è stato altrettanto potente e importante da analizzare proprio nel momento in cui va a simboleggiare una psiche in continuo mutamento che quindi è prima di tutto, soprattutto nel Macbeth che interpreto io, quello della caduta, della perdita e dell’avvicinamento all’infinito, all’animalità e al primordiale. È stato veramente qualcosa di molto profondo passare da un controllo dei propri sentimenti e quindi anche del corpo – che non esprimo nella prima parte delle mie scene – e arrivare poi a comprendere un percorso di conoscenza più grande del tutto, del futuro e del mondo dal primordiale, per trasformarsi in un corpo animalesco e cercare un’animalità nel corpo così come nella voce e nella parola. È stato molto interessante e significativo vedere questo nel momento in cui noi cerchiamo psicologicamente di arrivare a una conoscenza del tutto, sia del bene sia del male, e come il nostro corpo deve in qualche modo riappropriarsi della nostra forma umana, ma soprattutto della nostra forma ancestrale, quella più animale, per riuscire a avvicinarsi a Dio, che poi è quello che vuole Macbeth alla fine: essere sopra a Dio in qualche modo”.
Marianna Zito