Luca Beatrice racconta la mostra “Dalla terra alla luna” a Palazzo Madama di Torino
È appena stato pubblicato l’articolo sulla mostra “Dalla terra alla luna”, che si trova al Palazzo Madama di Torino. Nonostante sia agosto, siamo riusciti a parlare con uno dei due curatori, Luca Beatrice, che ha risposto a qualche nostra domanda.
D.M.A. – Ci racconta un po’ come è nata la mostra? Quali gli obiettivi? Come si è trovato a Palazzo Madama?
L.B. – Il 1969 è un anno dal quale scaturiscono inevitabilmente molti ricordi, e la mostra è nata perché la luna era quasi un tema obbligato. Ci sono state delle mostre in giro per il mondo, dal Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen al Grand Palais di Parigi fino al Metropolian di New York, e io ho ritenuto necessario che anche l’Italia si confrontasse con questo argomento. Ovviamente, poi, mi sono trovato bene a Palazzo Madama: si tratta di una realtà artistica molto importante per i torinesi, Guido Curto (il direttore del museo, ndr) è un caro amico e i conservatori sono tutti dei grandi professionisti. In più ho lavorato con Marco Bazzini, già direttore del Museo Pecci (di Prato, ndr) e mio grande amico. Si tratta quindi di un team piuttosto collaudato.
D.M.A. – Come avete scelto gli artisti da esporre?
L.B. – Noi abbiamo scelto le opere, non gli artisti. E, per portare avanti la selezione, la domanda che ci siamo posti era: in che modo l’arte ha immaginato la luna? Dati i presupposti, si poteva partire dall’antichità. Però noi abbiamo scelto di inserire pezzi che andavano dalla fine del Settecento ai primi anni Settanta del Novecento, quando lo slancio lunare si è concluso e abbiamo iniziato a occuparci di altri spazi.
D.M.A. – Perché siete partiti proprio da lì, dalla fine del Settecento?
L.B. – Perché con il Romanticismo è germogliato un altro genere di sensibilità, una nuova qualità di pensiero. In quel momento è comparso qualcosa di totalmente inedito all’orizzonte: iniziava a prendere forma l’uomo moderno, con la sua mentalità e le sue inquietudini.
D.M.A. – Perché, tra tutti, avete scelto proprio Chagall per il manifesto?
L.B. – Perché quando si organizza una mostra bisogna pensare anche a una strategia comunicativa efficace. E di solito il curatore non impone la strategia: si riflette tutti insieme per individuare l’opera che possa trasmettere meglio l’idea dei contenuti che saranno esposti, quella che riesca ad intercettare facilmente l’interesse di un pubblico più ampio possibile. Chagall è un pittore molto riconoscibile, molto amato; di solito le persone lo identificano immediatamente. Se per il manifesto avessimo usato un Concetto spaziale di Fontana, non verrebbero in molti a vederla.
D.M.A. – Secondo lei, per il pubblico, è più interessante il fatto che sulla Luna ci siamo stati davvero o che per tanto tempo l’abbiamo sognata?
L.B. – Secondo me è più rilevante averla sognata. Lo sbarco sulla Luna è arrivato al culmine di un decennio in cui credere nel futuro era, sostanzialmente, quasi un obbligo. E ci credevamo davvero. Dopo l’allunaggio, e oggi più di ieri, è obiettivamente un po’ più difficile avere fiducia per l’avvenire: siamo attanagliati da altre questioni, sogniamo di meno, e quindi delle due alternative proposte la seconda ha sicuramente avuto una innegabile preponderanza culturale. E infatti noi abbiamo scelto di inserire quasi esclusivamente opere precedenti al primo allunaggio: c’è qualche eccezione, è vero, e penso per esempio alla serie di Rauschenberg o a Clair de lune di Melotti, ma si sfora sempre di pochissimi anni.
D.M.A. – Come si inserisce questa mostra nel sistema dell’industria culturale torinese?
L.B. – Dunque, innanzitutto io non parlerei di industria, perché altrimenti poi sfociamo in un campo che non è il nostro: investire nell’intrattenimento culturale è lecito, ma quest’ultimo non sostituirà mai l’industria. Noi viviamo in un paese a vocazione industriale, e secondo me la crisi che stiamo vivendo può essere risolta solo rilanciando il sistema dell’industria, l’arte arriva in un secondo momento. Poi, per rispondere alla domanda, posso dire che ultimamente io mi sono specializzato in curatele di mostre un po’ popolari, condivisibili da una fetta di popolazione ampia, suggestive e, se possibile, anche divertenti. Ciononostante, non sento di dover sottostare alle regole di valorizzazione di un patrimonio: quel compito resta ai direttori dei musei. Più semplicemente, se mi viene un’idea, la propongo e spero di trovare qualcuno che sia interessato. A volte ci riesco e a volte no. Come tutto ciò si inserisca nella scena culturale torinese, è difficile a dirsi. Comunque, anche se negli ultimi anni Torino ha sofferto di una certa stagnazione, io sento di poter affermare che la nostra proposta culturale è elevata. Quel che ci resta da migliorare è l’aspetto più sperimentale del vivere: dovremmo tornare a essere una città più incubatrice, che non solo guarda al passato per studiarlo, ma che ricomincia anche ad investire per produrre arte.
Davide Maria Azzarello