L’OTELLO O LA PERDITA DELL’IDEALE ASSOLUTO DI GAETANO VENTRIGLIA
“C’è solo un test che si può applicare a qualsiasi forma di teatro: quando lo spettatore esce dallo spettacolo con più speranza di quando è entrato”. È pensando alle parole di Peter Brook che giovedì 21 febbraio lascio a malincuore, ma con tanta speranza, l’atmosfera intima del Teatro Planet. In questo piccolissimo spazio vicino a Re di Roma, che ricorda quello delle cantine romane, ho avuto la fortuna di vedere uno spettacolo folgorante: “Otello alzati e cammina”, scritto, diretto e interpretato dal geniale Gaetano Ventriglia.
La pièce shakespeariana piena di azioni simultanee si apre con l’incedere lento di Desdemona che, rivolgendosi a Emilia, parla della fedeltà delle donne. L’attore investito da un fascio di luce indossa un velo bianco, leggero e sussurra con tono pacato ogni singola parola. È come se il testo aspettasse di essere invocato dalla voce, corpo invisibile che opera nello spazio. Fin dalle prime battute Ventriglia non truffa lo spettatore semplicemente perché non recita, lui dice e tutte le sue parole sono formate nella creta del dire. Il suo dire è una scultura plastica. Tolto il velo però gli abiti che restano sono quelli di un Chaplin dalla comicità miniaturizzata ed esplosiva, pronto ad inanellare gag e improvvisazioni folli, come l’assaggio della ricotta a ritmo di valzer. Tocca poi a Iago, l’artista della reticenza che si rivela nascondendosi per tutto il dramma, il genio che annusa prima di parlare. Nella tessitura del suo racconto, un insieme di verità impazzite, rimangono intrappolati Cassio, Otello, Desdemona, Graziano, Roderigo, persino il fazzoletto simbolo del peccato. Iago dunque in risalto, ma per nulla. Mette su una vera e propria setta, ma il protagonista della tragicommedia per Ventriglia è Otello che rappresenta chi non riesce a tenere l’ideale ossia Desdemona, che è l’ideale assoluto. Quando l’ideale vacilla è già crollato. Desdemona è la possibilità che buttiamo via per uno Iago qualunque. E quando si chiede all’attore e Otello uccida per gelosia o per eccesso d’amore, lui risponde subito, perché non c’è più ideale. Azione ed essere sono quindi la stessa cosa. In Amleto la grandezza è questa sospensione dell’azione, in Macbeth l’incertezza dell’essere, in Re Lear il declino, la rinuncia dell’essere, in Otello l’illusione dell’essere. Quello di Ventriglia però è un Otello affaticato, quasi immobile, con i capelli bianchi che nell’arcipelago in cui ormai vive da anni, un rifugio i cui confini sono segnati da piccole lucine blu al neon, sogna l’arrivo di un’astronave che lo porti via. Si immagina a vendere accendini sulla spiaggia, davanti a quel mare “di merda” di Cipro che stanco guarda da sempre ora con un binocolo fatto con le mani, ora con occhiali da sole e un banchetto stile vucumprà popolato da torce, animaletti e altricineserie varie, che fanno il verso della rana o piangono come nel caso della scimmietta. Un pianto – ricorda l’attore – anch’esso assoluto come, appunto, l’ideale. Non mancano dvd di Mulholland Drive, firmato David Lynch, con la citazione rivisitata “No hay banda …There is no Banda”, ancora un dvd del vecchio spettacolo Kitémmurt e per concludere il disco di Eros Ramazzotti “Adesso tu”.
Il lavoro sul personaggio, questa specie di altro che include la persona, è centellinato. Sospeso tra farsa e dramma, l’attore dimostra di sguazzare abilmente nel materiale di origine elisabettiana, usa il dialetto foggiano, pronuncia dialoghi del testo originale in inglese, ordina buio e luce, interpreta a meraviglia “Cypress Grove Blues” di Skip James accompagnandosi con una chitarra resofonica National degli anni trenta, è un juboxe di freddure, come ad esempio quella sull’esercizio di training del teatro d’avanguardia, un saltino mostrato a chi lo segue con meraviglia e stupore, come se si concedesse il lusso di scoprire il mondo per la prima volta. Un teatro che si interroga sull’Otello mettendolo in rapporto con la condizione esistenziale dell’oggi e del sempre. Non è un gioco intellettuale ma si tenta di dare vita viva a personaggi veri. Per questo è fondamentale il lavoro dell’attore che deve provare a visitare il testo, a tentare l’onestà. Il teatro, più di ogni altra cosa, è fatto di biografie, di persone che ci mettono la faccia. E non si tratta di avere successo, bensì di acquisire un valore umano e individuale. È sul problema del senso del lavoro, non del suo valore che si dedica il teatro di Ventriglia e il risultato è a dir poco formidabile. “A bordo…a bordo angeli”.
Diana Morea