“Lo zoo di vetro”: La fragile illusorietà della realtà svelata da un pagliaccio
“Sentimentale, non realistico; sentimentale, non realistico; sentimentale, non realistico.”
È a questa frase, ripetuta tre volte nella dichiarazione d’intenti iniziale di un Pierrot narratore che ci parla sotto la luce di un faro stradale, che viene affidato il difficile ruolo di illuminarci rispetto a ciò che stiamo per vedere. È un avviso a noi, pubblico di naviganti: quello che ci aspetta è un mondo dove c’è molto trucco e molto inganno. Perché il dramma è memoria, anzi è proprio nella memoria, nel ricordo, nella ricerca di una ragione, nel rivolgersi verso un passato doloroso e un futuro incerto.
Non a caso il giovane e promettente regista Leonardo Lidi, che alla sua prima grande prova sceglie di confrontarsi con un testo, “Lo zoo di vetro” di Tennessee Williams, che deve la sua sacralità alla capacità di disegnarci un mondo drammaticamente reale, sceglie la finzione dichiarata, esplicita, esagerata, come chiave di rappresentazione della verità. Il Pierrot-narratore, Tom, è un ragazzo che ricorda con dolore la realtà da cui è colpevolmente fuggito e costruisce per noi un mondo rosa pastello popolato da pagliacci dalle lunghe scarpe. Protagonisti della storia sono i componenti di una famiglia americana, la sua, i Wingfield.
La madre, Amanda, è una donna “in attesa” (e apparentemente incinta), apprensivamente smaniosa di controllare le vite dei suoi due figli non essendo stata capace di fare lo stesso con quella di un marito che l’ha da tempo abbandonata. La bravissima Mariangela Granelli la interpreta in versione clownesca, con tanto di naso rosso, completamente rivolta verso un passato pieno di spasimanti desiderosi di incontrarla; così come, in maniera diversa e specifica, sono clown cupi e infelici i due figli Tom (un come sempre meraviglioso Tindaro Granata), che lavora senza alcuna soddisfazione e prospettiva in un magazzino pieno di scatoloni, ma trascorre tutto il tempo che può “al cinematografo”, e Laura (una delicata Anahì Traversi), la cui zoppia limita tutte le sue relazioni e ne fa un personaggio introverso che, pur di non affrontarle, preferisce camminare nel parco dalla mattina alla sera. Ecco, ciò che tutti i personaggi di questa storia vorrebbero è probabilmente “essere altrove”, in un altro luogo o in un altro tempo.
L’unico che veramente è “assente” è in realtà il padre, fuggito a suo tempo ma continuamente evocato dai dialoghi dei familiari. Il regista ne esalta la presenza-assenza mettendocelo sul palco, seduto e assolutamente immobile. Sin dalla prima scena lo vediamo lì, vestito e truccato come gli altri da pagliaccio, in attesa di un’entrata in azione che non avverrà mai. Al contrario il padre uscirà di scena per ritornare subito dopo, struccato e in canottiera e mutandoni, nei panni di Jim (un ottimo Mario Pirrello), amico d’infanzia e collega che Tom ha invitato a cena con un minimo preavviso causando il panico in famiglia. “Apri quella porta, Laura”! L’irruzione della realtà sarà devastante. Jim, unico personaggio del mondo reale, è uno spettro che torna e distrugge, seppure involontariamente, lo zoo di vetro che il padre aveva regalato a Laura, e che lei cura ogni giorno con maniacale dedizione. L’unicorno spezzato, il sogno, si riduce così a normale cavallo, un pezzo di realtà che condivide la mediocrità di noi pubblico, mentre il “reale” Jim diventa un pagliaccio con il naso rosso.
La fragilità dell’illusorio zoo di vetro delle nostre ambizioni, con i suoi animaletti immateriali, è la rappresentazione di un mondo che oggi, come ai tempi della prima rappresentazione del bellissimo testo di Tennessee Williams, è rischiarato soltanto dai lampi di una tempesta sempre incombente che promette di distruggere tutto. Un mondo disperato in cui l’unica scossa possibile è quella che, da un momento all’altro, può annientare tutto e tutti.
“Spegni le candele, Laura.”
In scena dal 7 al 17 novembre al Teatro Carcano di Milano
A. B.