L’intervista a Dario Neron sul suo nuovo romanzo “Franco Toro – L’uomo più bello del mondo”
“Franco Toro – l’uomo più bello del mondo” è il nuovo romanzo di Dario Neron (Castelvecchi, 2020, pp. 212, euro 20,50), che porta il lettore a seguire la storia, raccontata in prima persona, del protagonista, Franco Toro, un uomo di 28 anni, bellissimo, che per lavoro si prostituisce. Un romanzo avvincente, in un tempo e in un luogo di una realtà indefinita, nella quale Franco si muove sicuro e senza esitazioni. Un romanzo che svela a poco a poco ciò che si nasconde nel profondo nella vita apparentemente soddisfacente del protagonista e che porta a riflettere sulla vita e sulla fantomatica ricerca della felicità. Per andare più a fondo in questo libro, abbiamo fatto alcune domande all’autore, Dario Neron.
Buongiorno Dario, “Franco Toro – l’uomo più bello del mondo” è il suo secondo romanzo uscito lo scorso luglio per Castelvecchi editore, qual è stata la tempistica di scrittura e revisione?
Buongiorno Roberta e grazie per questa bella intervista. Ho impiegato tre mesi per la stesura, mentre la post-produzione è durata almeno il doppio. Il manoscritto è stato consegnato il 10 novembre 2018 ed era pronto per la stampa il 9 aprile 2020. Il Covid lo ha posticipato a luglio.
La prima cosa che mi ha colpito di questo romanzo è l’ambientazione volutamente non specificata, gli eventi accadono in un anno qualsiasi, si menziona genericamente una Metropoli con quartieri identificati come Bassifondi o Città Giardino, e la Riviera, con tratti surreali e che sembrano trovarsi in un ipotetico futuro poco allettante, come ha elaborato questa scelta?
Trovo interessante che in molti lettori hanno piazzato la vicenda nel futuro, mentre penso di aver descritto semplicemente una metropoli urbana. Dietro alla scelta di luogo e tempo indefiniti, c’era l’idea di far funzionare il romanzo ovunque e in qualsiasi momento storico. Se avessi dato un’identità alla città, già solo dandole un nome -fittizio o reale non conta – avrei precisato che le vicende accadevano soltanto in quel luogo, mentre quanto vede Franco, quella fetta di società con cui lui si confronta, non conosce frontiere. È globale. La stessa cosa vale per il tempo. Non sono cose che succedono nel 2020, ma purtroppo sempre nel presente in cui si legge questo libro. Sono poco convinto, che le cose cambieranno.
Franco Toro è un personaggio intrigante, è lui a dare voce agli eventi e il lettore è nella sua testa in ogni pagina: su quale ispirazione ha costruito questa personalità imperturbabile con “due cuori”?
Questo romanzo segue leggermente la corrente stilistica della Generation X (Easton Ellis, Palahniuk, Hornby), quindi quella con cui sono cresciuto, anche se più che altro in musica con i Nirvana, Sonic Youth, Pearl Jam, eccetera. Franco nasce da questo bisogno di osservare e riportare quanto visto con uno sguardo cinico, non necessariamente criticando o giudicando, ma decifrando con scetticismo quanto vede, sapendo bene però che lui stesso non è di un’oncia meglio di ciò che lo circonda. Qui nasce la dicotomia del personaggio: il riconoscere il male sperando nel bene per tutti, facendo però lui stesso parte del marcio, per fare un bene in verità solo a sé stesso.
Il romanzo si basa principalmente sui rapporti interpersonali tra uomo-donna, è voluta l’omissione dei rapporti genitori-figli? Franco cita solo fugacemente il padre, ma non viene detto nient’altro e la madre non viene menzionata, così come non entrano in gioco neanche per gli altri personaggi figure materne o paterne.
Questa è una bella domanda. Finita la stesura me l’ero posta pure io. Il sottotono del romanzo è cupo e insicuro, Franco è un personaggio puramente devoto al suo lavoro, più per il guadagno che per l’apprezzamento di quanto fa. In un mondo del genere, nel suo mondo, dove tutti sono contro tutti, credo di non aver voluto lasciare spazio alla famiglia, che ne è, almeno romanticamente, il perfetto opposto. Quindi i rapporti di Franco sono limitati alle sue poche amicizie. Anche se una parte famigliare c’è, rappresentata da sua sorella e nel loro rapporto si riconosce quell’amore, spesso sgarbato ma sincero, dei fratelli.
Il romanzo, particolarmente in alcuni punti, colpisce con ironia pungente nei nomi, non solo delle cose, come la macchina di Franco, la Ferrschedes (fusione delle prestazioni di Ferrari, Porche e Mercedes), ma anche nei nomi di alcuni personaggi secondari che sono storpiature di personaggi conosciuti in Italia, vuole essere una sorta di monito per la società?
Nonostante la trama si svolga in un non-luogo, dei riporti alla nostra realtà, al mondo in cui viviamo, usandone appunto alcuni dettagli storpiati, porta a capire che si tratta di una fiction ma narra il vero, o almeno una verità. Anche se non vuole fare del moralismo, è sicuramente un romanzo che porta a riflettere, soprattutto una volta terminato.
La “colonna sonora” del romanzo, che ricompare in più punti è un brano degli Alphaville “Forever young”, di cui viene chiesto un ascolto attento per andare oltre alle prime apparenze, si può interpretare come il mantra di Franco e di tutto il romanzo?
Assolutamente. Di fatti, è una canzone che ascoltavo molto durante la stesura. È un pezzo melancolico, a leggerne il titolo sembra descrivere un pensiero adolescenziale, ma racconta un’amara verità. Per quanto al vita sia bella da vivere tutta e andrebbe vissuta di conseguenza, tendiamo a rimpiangere quanto è stato. Prima su tutto, la gioventù. Franco tutto questo lo vive a pieno e si riconosce così in lui, nonostante il suo carattere spietato, diretto e senza esitazioni, in verità, una natura triste.
L’immagine di copertina del suo romanzo raffigura un uomo vestito elegante seduto su un trono a gambe accavallate e con un grosso sigaro in mano, il tutto su uno sfondo scuro, come è arrivato a questa immagine che indubbiamente suscita un senso di potere?
Per la copertina diciamo che avevo poca voce in capitolo. È una scelta grafica dell’editore. Chi l’ha creata ha però letto bene il romanzo. Ciò che Franco esibisce in superficie, quindi sì, in copertina, è un’immagine di success, ricchezza e quindi potere. Un carattere al quale ci si sottomette istintivamente, forse anche perché tanto avvolto dall’oscurità e dal mistero.
“È proprio la speranza, l’aspettativa, il veleno peggiore di cui l‘uomo si possa drogare”. Questa è una delle frasi che mi ha colpito di più, secondo Lei è applicabile anche alla realtà che ci troviamo ad affrontare oggi?
Credo di sì. In realtà la speranza è un’attesa, quindi uno spazio senza azione e ciò che non si muove, è morto. Nelle grandi città o meglio, nelle società industrializzate, siamo spinti a prendere in fretta delle decisioni per raggiungere quelle pietre miliari nel percorso vitale da altri prescritto. Se invece la scelta fosse puramente nostra, non credo che le vite di ciascuno si somiglierebbero tra di loro così tanto come lo fanno oggi, nel senso di nascere, andare a scuola, lavorare, far famiglia e poi spegnersi. In questo meccanismo di alienazione dai nostri veri e intimi desideri, la speranza che un giorno le cose cambieranno, diventa dapprima una droga e, più in là, un veleno. Perché è un palliativo, una distrazione, una non-azione.
Il romanzo potrebbe essere un ottimo soggetto per un film, a chi affiderebbe, in tal caso, il ruolo del protagonista?
Beh, questo è un desiderio grande. Sono un grande consumatore di film e il cinema mi ha da sempre accompagnato, quindi vedere questo romanzo sul grande schermo, sarebbe un sogno che si realizza. Franco Toro è un personaggio contorto, di certo non sarebbe facile interpretarlo. Se potessi impiegare qualcuno di Hollywood, del passato, allora mi butterei su Steve mc Queen, anche se era biondo. Degli attuali invece sceglierei James Franco, degli italiani Francesco di Leva, bravissimo, o Riccardo Scamarcio.
Roberta Usardi
Fotografia di Carlo Rusca
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