L’epifania (femminista) in Ibsen al Teatro Carignano di Torino
Dal 4 al 31 ottobre il pubblico della stagione del Teatro Stabile di Torino ha potuto assistere alla rivisitazione di “Casa di bambola” di Henrik Ibsen al Teatro Carignano di Torino, per la regia di Filippo Dini. Una regia che mette in chiara evidenza lo scontro, in questo caso esplosivo, tra uomo e donna. A sipario ancora chiuso la citazione dalla Genesi rimanda alla concezione sociale della donna subordinata all’uomo con cui si aprirà la narrazione. E la stessa citazione si rilegge forte nell’impattante scelta scenografica, a cura di Laura Benzi, di posizionare al centro del palcoscenico un albero che buca il soffitto e che, con i suoi colori vividi, è in netta contrapposizione con le sfumature tenui del resto della stanza. Un albero del bene e del male, che ricorda il melo dai frutti proibiti ad Adamo ed Eva. Viene diegeticamente usato come albero di Natale ma a tratti è quasi surreale e la paradossale ricerca di verosimiglianza della messa in scena è forte: all’interno di una casa bella e perfetta c’è questa presenza ingombrante, con echi grotteschi. E Nora, la protagonista, è come una moderna Eva, attratta da quell’albero che distoglie l’attenzione dal resto della scena. E i suoi frutti risvegliano una improvvisa consapevolezza in Eva come in Nora a conclusione dello spettacolo. La scenografia è profonda, tridimensionale, gioca con il fuori scena sia in termini visivi che sonori. Le luci, cinematografiche, di Pasquale Mari disegnano in modo verosimile i momenti della giornata a cui assistiamo. Lo spettatore si diletta con il voyeurismo delle dinamiche famigliari di questa coppia.
La vicenda si svolge nel periodo di Natale in casa Helmer: Torvald, interpretato dallo stesso Filippo Dini, è stato promosso a direttore di banca e la gioia e la fibrillazione regnano sovrane. Il denaro, che grazie alla promozione è destinato ad aumentare, è una delle matrici dello spettacolo e torna spesso insieme all’ideale cristiano della donna sottomessa e dipendente dal marito: Nora, interpretata dalla splendida attrice turca naturalizzata italiana Deniz Özdoğan, è una bambola nelle mani di suo marito. L’ipotizzata mancanza di indipendenza e libertà della Nora di Ibsen è qui modernizzata e rivalutata: in questo caso la protagonista è in possesso delle proprie libertà, anche se talvolta limitate. Dall’altro lato, però, è ed è sempre stata incapace di scegliere e pensare, dipendente persino psicologicamente dalle figure maschili che compongono la sua vita. Inizia così una graduale presa di coscienza della donna come individuo senziente che inserisce il testo nel dibattito contemporaneo femminista.
È un personaggio dinamico, in un climax che è come un turbine: da madre svampita, passa ad essere una donna sensuale e infine consapevole, in un percorso di emancipazione con picchi di “follia”. La tarantella in cui si cimenta Nora nel corso dello spettacolo diventa punto di svolta e punto di non ritorno: una danza viscerale, incontrollata, sfrenata, che è allo stesso tempo graduale e improvvisa presa di coscienza di se stessa come persona e come donna. Si accorge di essere stata cucita, come una bambola di pezza, nelle vesti di quella madre che forse lei non è mai stata davvero: i figli infatti sono una presenza costante ma aleatoria e per motivi anche di messa in scena non compaiono mai. L’unico anello di congiunzione tra madre e figli è rappresentato da Anne Marie, la bambinaia e domestica interpretata da Orietta Notari, che ha da poco concluso anche le repliche ne “La casa di Bernarda Alba” per la regia di Leonardo Lidi.
Nora è mutevole e contemporaneamente statica nel rapporto con gli altri personaggi, con i quali si mostra forte e consapevole, ma allo stesso tempo insicura. Solo nel rapporto con il Dottor Rank, interpretato da Fulvio Pepe, sembrano crollare i muri. E la Nora della Özdoğan è attuale in modo disarmante ed è diametralmente opposta alla forse anacronistica donna ottocentesca che abbandonava marito e figli del testo originale di Ibsen e che aveva fatto scalpore nei salotti e nei teatri borghesi.
Giulia Basso