L’elisir d’amore a Palazzo Arsenale: comincia l’estate del Regio
Martedì 15 giugno, Torino. Sono solo le otto e un quarto, ma l’angolo tra via dell’Arsenale e via dell’Arcivescovado è già discretamente affollato. In venti minuti la fila per entrare a Palazzo dell’Arsenale arriva quasi fino in corso Re Umberto. Purtroppo, nonostante la tranquillità in parte ritrovata, bisogna ancora seguire le regole che prevedono la misurazione della temperatura, il tracciamento preventivo, annessi e connessi (il che procura un fisiologico ritardo del tutto scusabile). Dei mille posti disponibili nel cortile del Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito, a occhio sono pochissimi quelli rimasti vuoti. C’è la Torino bene – assessori, direttori, professori – ma ci sono anche tante persone in jeans e maglietta. Il palco forse andava montato giusto un metro e mezzo più in alto, poiché (sempre a occhio) è stato posto nella parte più bassa del cortile, e quindi si rischia di non vedere i cantanti già dalla decima fila, come mi dice una coppia di abbonate che, appunto, hanno acquistato i biglietti per la dodicesima, e nonostante i tacchi vediamo solo le teste. Com’erano i costumi? Lei li ha visti? Ma poi comunque sicuramente dietro ci saranno delle esigenze di carattere tecnico che noi non conosciamo. E poi l’opera va più che altro ascoltata, forse.
Lo spettacolo che il Teatro Regio di Torino ha selezionato per inaugurare la stagione estiva (la prima vera stagione da quel nefasto marzo 2020) è L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti, melodramma giocoso su libretto di Felice Romani (che lo ricavò da Le Philtre di Eugène Scribe) eseguito per la prima volta nel ’32 al Teatro Lirico di Milano, all’epoca detto La Cannobiana e oggi intitolato a Gaber. Trama soprattutto scherzosa, ironica, per nulla didascalica, immediata, e dunque in qualche modo adatta ad una fresca estate post pandemica, quando tutti rincorriamo comprensibilmente la frivolezza o quantomeno la leggerezza. Repliche previste: due. Una venerdì e una stasera (per cui ci sono ancora dei biglietti disponibili).
Dopo la dedica al personale medico italiano, si parte. L’allestimento, più volte proposto in passato, ha visto la regia affidata a Fabio Sparvoli, il quale ha voluto restituire al pubblico la versione originale dell’Elisir, da intendersi come opera buffa post rossiniana, e come scrive Alberto Bosco nel libretto di sala, non era facile scrivere un’opera buffa dopo Rossini: Donizetti ci riuscì, abbinando all’impianto buffo brani di carattere idillico-romantico, creando un efficace contrasto tra situazioni ridicole e sentimentali. Belcore ricorda il Mustafà dell’Italiana in Algeri, Dulcamara ricalca Figaro; eppure c’è qualcosa in Donizetti che va “oltre”, o che comunque si discosta dal divertissement nudo e crudo del cigno di Pesaro. Le scene di Saverio Santoliquido sono graziose, i costumi di Alessandra Torella sono appropriati: l’impianto estetico riproduce la dimensione rustica propria dell’ambientazione basca. Peccato che all’aperto non si sia potuto trasportare il fondale azzurro (perché le mura del cortile, per quanto maestose, non combaciano affatto con la situazione agreste). Simpatica l’idea dell’Ape usata per l’ingresso di Dulcamara, che giunge quindi come certi venditori ambulanti che ancora oggi vagano per i quartieri popolari delle nostre città. Spiacevole, poi, dover vedere ancora il coro di Andrea Secchi imbavagliato nelle mascherine (nonché, immaginiamo, scomodo per gli stessi cantanti). Dirige l’orchestra Matteo Beltrami, molto compreso nel ruolo di accompagnatore vocale: fluido, scorre sulle note con la professionalità di chi evidentemente conosce molto bene questo tipo di repertorio, coinvolgendo quasi le rondini che al crepuscolo (durante il primo atto) garriscono querule, disapprovando forse tutto quell’umano frastuono. Le voci, infine, soddisfano del tutto gli spettatori: Bogdan Volkov, delicato tenore russo, regala un Nemorino gentile ma autorevole, convincente e piacevolissimo; Mariangela Sicilia interpreta un’Adina frivola e virtuosa, mai banale né caricaturale; Giorgio Caoduro propone un Belcore egocentrico, gagliardo e impettito, dunque azzeccato. Marco Filippo Romano, poi, è il Dulcamara ideale, quasi convinto della magia del suo vino; è un ciarlatano ma è anche un mercante col quale magari faremmo volentieri due chiacchiere davanti a qualche bicchiere di sincero elisir. Molto teatrale, goldoniano, simpaticissimo. Completano il cast Ashley Milanese (ruolo breve, quello di Giannetta, ma risolto perfettamente a livello vocale) e Mario Brancaccio.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Andrea Macchia