“L’Edipo” di Michele Sinisi a Torino: un’indagine che va oltre
Siamo al Palazzo degli Istituti Anatomici di Torino, l’isolato ottocentesco tra corso Massimo d’Azeglio e le vie Giuria, Michelangelo e Donizetti che ospita il celebre museo di antropologia criminale dedicato a Cesare Lombroso e quello di anatomia umana intitolato a Luigi Rolando. Gli spettatori – coro di odierni tebani? – entrano nell’aula magna della (ex) università di anatomia medica e, invece del professore, ritrovano al centro degli spalti circolari una strana scena del crimine: un uomo accecato si aggira guardingo (lo so, non ha senso… ma è così) tra i teli di plastica che delimitano le tre pareti del palco. È successo qualcosa di sgradevole. Forse desolante. Ma cosa?
Grazie al Festival delle Colline Torinesi, martedì 11 e mercoledì 12 giugno, è andato in scena per la prima volta “Edipo – il corpo tragico”, il nuovo spettacolo di Michele Sinisi che salpa dall’Edipo Re di Sofocle per approdare a un risultato stravagante ma in fin dei conti riuscito. Sinisi, qui sia regista sia interprete, parte dall’esodo e arriva al prologo: si inizia dal finale, si attraversa lo svelamento, l’incesto, il parricidio e si giunge ad un esordio che riflette sulla natura atavica del mito in questione. L’Edipo iniziale, che si è cavato gli occhi dopo aver visto la moglie Giocasta impiccata, ripercorre a ritroso la sua storia liberandosi di tutti gli strati che indossa (vestiti, maschere, segni del tempo) per riavvolgersi allo stadio primordiale in cui il padre Laio – che voleva impedire l’avverarsi della profezia – gli fa forare le caviglie per poi abbandonarlo in una foresta. Il futuro, il presente e il passato si intrecciano fino a confondere lo spettatore, che assiste ad un’indagine drammaturgica molto particolare.
Ad accompagnare l’azione teatrale ci sono diverse tracce sonore: musica greca, una lezione di storia del teatro raccontata da Simone Faloppa, orgasmi, tuoni, un mind the gap di quelli delle metropolitane ripetuto in loop da una voce metallica. Riferimenti, evocazioni, parallelismi. Questo gap, per esempio, potrebbe riguardare l’abisso tra la beata ignoranza e la tragicità del conoscere. Un tema, questo, insito nel testo di Sofocle – tema che però, appunto, viene solo suggerito. Come per tanta drammaturgia contemporanea, è difficile (molto difficile) captare subito il messaggio che si vuole proporre attraverso questo tipo di performance, dato l’alto tasso di autoreferenza che ammanta i contenuti rendendoli squillantemente ermetici. Talvolta lo spettacolo nega se stesso: la voce fuori campo spiega che non dobbiamo confondere il personaggio con l’attore, e poi Edipo Sinisi chiama sua mamma col cellulare per chiederle se è davvero figlio suo, costringendo così il pubblico a entrare in un vortice di pirandellismo che porta a dubitare di quanto appena affermato. Spesso, poi, le soluzioni scelte per risolvere le questioni della trama oscillano tra la metafisica e il dadaismo: un Tiresia carabiniere che non dispensa più moniti profetici ma aiuta Edipo a investigare, l’incesto che regredisce alla masturbazione, i monologhi recitati in andriese (il dialetto di Sinisi), l’omicidio del padre ridotto alla schematicità di una maschera di gesso fracassata con un martello. Ogni tanto, peraltro, si ha l’impressione che Sinisi non stia interpretando solo Edipo, ma anche altri personaggi: quando si appende per la caviglia, per esempio, non si può non pensare ad un capovolgimento della figura di Giocasta impiccata. Come se uno specchio ci restituisse l’immagine ribaltata della donna. Quale sia il fine ultimo di questo Edipo, quindi, è difficile a dirsi. Riflettere sul valore atemporale degli archetipi proposti da Sofocle? Ricreare l’eterno presente in cui sopravvivono i modelli della tragedia? Certo, questi aspetti ci sono. Ma è tutto qui? Speriamo di no. Anche perché se questo fosse il fine ultimo basterebbe rimettere in scena il testo originale, senza reinterpretare e riformulare tutta la trama. Sinisi è voluto andare oltre il testo di Sofocle: dove sia arrivato, però, non è ben chiaro. Il che non significa che l’operazione sia inconcludente; semplicemente è giunta a un punto dello spaziotempo in cui le parole non possono più descrivere gli oggetti. Va detto, poi, che per fortuna Sinisi ha preso le distanze da quel circo di teatranti (o teatristi) che ripropongono quell’Edipo di cui ci avevano parlato a scuola, quello rapito da un Freud che lo ha decontestualizzato e ce lo ha restituito tutto stropicciato. La proposta di Sinisi è perfettibile, sì, ma originale. Un po’ autoreferenziale, certo, ma in fin dei conti quale forma d’arte non lo è? L’esito è comunque intrigante. Applausi meritati.
Davide Maria Azzarello