“Le Marlboro di Sarajevo”, lo splendido libro di Miljenko Jergovic
Sarajevo ha vissuto l’inferno. A Sarajevo fu attuato un diabolico piano premeditato di sterminio che ha portato all’assedio più lungo della storia recente. Sarajevo per ben 1395 giorni è stato il simbolo più sanguinoso della guerra nella ex Jugoslavia. Oltre 12.000 morti di cui circa 1.500 bambini. Più di 50.000 feriti.
Tutti i racconti di questo splendido libro, “Le marlboro di Sarajevo” (BEE, pp. 192, euro 16), sono stati scritti durante l’assedio di Sarajevo, che durò dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. In quei giorni sulla città caddero oltre 415.000 proiettili di artiglieria. Ma questi sono solamente numeri.
Per afferrare la storia di Sarajevo bisogna sfogliare queste pagine sforzandosi in maniera ardua per capire la tragicità e l’assurdità di quella guerra. Miljenko Jergovic lo fa in maniera semplice e lineare, narrando le storie di alcuni abitanti della città durante il conflitto. Racconti in cui la vita è sempre in bilico e la morte è sempre in agguato, con dolcezza, amore e malinconia per un città devastata “La chioma del melo fu centrata da un colpo di mortaio… il vetro si incrinò con l’esattezza di un meridiano sulla carta geografica… spaurito guardavo il sole aspettando un proiettile da un momento all’altro.”
Racconti di una magnifica bellezza corale, in cui si fa fatica a comprendere la degna e umile accettazione della realtà quotidiana da parte di una popolazione assediata per così tanto tempo. La guerra c’è in ogni riga ma non la si vede quasi mai. Si odono i boati delle granate e i sibili dei mortai, ma è come se fosse una protagonista nascosta sempre e costantemente in secondo piano. Perché a dominare la scena delle Marlboro di Sarajevo sono le persone e le storie celate in ogni racconto, le stesse creature di cui alla fine del libro si è già persa ogni traccia.
“Tiro fuori le sigarette da una tasca, gli faccio vedi queste, queste sono sigarette prodotte a Sarajevo, gli chiedo se sa perché il pacchetto è tutto bianco, da un cenno del capo vedo che non lo sa, e allora: è bianco perché non c’è rimasto neanche un posto in cui stampare la scritta sui pacchetti. Tu poi ne dedurrai che razza di miserabili sciagurati siamo noi, visto che sui nostri pacchetti di sigarette non c’è scritto niente, lo dedurrai perché, è chiaro, tu non sai guardare.”
Ciò che rimane di questa lettura è la città delle rose, Sarajevo, una città che ho nel cuore, simboleggiata da quelle macchie rosse su marciapiedi che ricoprono quelle che un tempo erano tracce di sangue nei punti in cui esplodevano le granate. “Ce ne sono tante sulle strade della città e sono diventate il nostro simbolo. Con la pioggia luccicano ancora di più, come se il sangue fosse ancora fresco”, mi raccontò Zlata, simpatica ragazza dal volto leggero, gli zigomi pronunciati, gli occhi azzurrissimi e una Marlboro tra le dita, durante il mio viaggio a Sarajevo. Figlia della guerra, cresciuta durante l’assedio, degna erede di quella città cosmopolita che, se la rivivi leggendo le pagine di questo libro e hai un’anima, piangi.
Salvatore Di Noia