LE FIGURE DI LICHTENBERG di Ben Lerner
“… il suono di una sola mano che applaude è un battito del cuore?”
Le figure di Lichtenberg sono i disegni ramificati che i fulmini lascerebbero sui nostri corpi qualora ci colpissero. Sono chiamati anche fiori di fulmine perché sono leggeri e sinuosi nella forma. Sono gli stessi stessi segni che ci lasciano addosso le composizioni di Ben Lerner (Topeka,1979) che – nella sua raccolta Le figure di Lichtenberg (Tlön, 2017) nella traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan – crea un indefinito legame tra poesia e prosa: parte da una tormentata fonte poetica dove “la poesia deve ancora emergere” alla ricerca di una via salvifica per la prosa che – malgrado o per fortuna – riesce a contenere sempre in sé quella poesia che Lerner critica, attacca, offende e, sempre attraverso la prosa, ci ripropone con violenza, assieme alla figura del poeta stesso, quel poeta che “… non camminerà mai più. Nemmeno nelle poesie”.
Lerner ci narra il tempo che passa tra tecnologia e progresso, tra relazioni interrotte, tra ovvietà e supposizioni “Il pollo è un po’ troppo asciutto e/o tu mi hai rovinato la vita”, tra le lotte con il nemico, la politica e ancora la religione. Tutte immagini di vita o di destino di quella consuetudine irrisoria che non cerca volontà di riscatto, se non il suicidio. Le parole di Lerner prendono forma nel momento in cui toccano la realtà ed è in quell’istante stesso – attraverso figure leggere – che la realtà comincia a disegnarla in un evidente contrasto tra la memoria e il linguaggio, dove da espressioni elevate arriva a toccare quelle usuali dello slang quotidiano, quasi osceno.
Le sue figure sono brillanti e ci portano dalle visioni nostalgiche del sogno e della morte, alla ricerca costante di arte, bellezza e pace, fino all’inquietudine del reale sia con ironia, con decadenza sia con una profonda dolcezza ingannevole e fugace. Ci riconosce e ci seduce Ben Lerner, per poi rilanciarci nell’abisso gretto e crudo, in quell’inquietudine rassegnata e tagliente dal sapore quasi bukowskiano.
Marianna Zito