Lazar-us, alieni a noi stessi: la parabola di Thomas Jerome Newton
“Questa è la vita degli dèi e degli uomini benedetti e simili agli dèi… una vita che non trova piacere nelle cose di questo mondo, che è fuga da solo a solo”.
Plotino, Enneadi
Si è conclusa il 18 giugno scorso, al Teatro Carignano di Torino, città natale del regista Valter Malosti, la prima tournée della versione italiana di Lazarus, l’opera rock scritta da David Bowie in collaborazione con il drammaturgo irlandese Enda Walsh, per la produzione di Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale e LAC Lugano Arte e Cultura. La penna di un autore particolare e poliedrico come Walsh ha concretizzato il nucleo pulsante ideato dal Duca Bianco, nella sua personale rilettura di The Man who fell to Earth, il libro di Walter Tevis trasposto cinematograficamente nel 1976 da Nicolas Roeg, il quale volle Bowie come protagonista dopo averlo visto in “Cracked Actor: a film about David Bowie”.
Ritroviamo Thomas Jerome Newton (Manuel Agnelli), alieno approdato sulla Terra in cerca di acqua, dove ha trovato invece successo e denaro, e rimastovi intrappolato da lungo tempo: apolide di due mondi, estraneo a se stesso e privo di una propria dimensione esteriore e interiore, intensifica la propria solitudine chiudendosi fra quattro mura, sotto il bombardamento delle immagini di una pletora di schermi televisivi, che lo tengono in una sorta di ipnosi anestetizzante, a tratti regressiva. Condizione che lo rende bramoso di un passato cui egli stesso ha posto termine, di un ritorno a un pianeta dal quale in verità aveva deciso di staccarsi, di una morte che è incapace di volere davvero. Isolato, in un’atmosfera decadente, alcolica e di latente follia, ma visitato suo malgrado da una serie di presenze, senza apparente filo logico o connessione: l’assistente infatuata (Michela Lucenti), con l’anelito di sostituirsi al fantasma dell’Amore Perduto (Roberta Lanave), il marito di costei (Maurizio Camilli), che reagisce all’allontanamento della compagna, una ragazza affetta da amnesia ma che conosce perfettamente i trascorsi (o l’anima?) di Newton (Casadilego), un sadico serial killer dalla violenza inusitata e senza giustificazione (Dario Battaglia), un collaboratore ambiguo (Attilio Caffarena), una coppia di fidanzati (Camilla Nigro e Isacco Venturini). Il minimo comune denominatore fra di loro: la fuga dalla propria condizione, la caccia a un’alterazione illusoria, passata o futura. Tutti in movimento lungo una narrazione centripeta, le cui azioni sono accompagnate ed esaltate da un Coro, come nella tradizione del teatro classico greco, composto da tre giovani donne identiche nell’aspetto e nelle movenze: a volte benevoli Grazie a volte sentenziose Moire (Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino).
Chi cercasse una trama, una linearità, è decisamente fuori traccia. Si viene strattonati, cullati, ammaliati, in una sollecitazione sensoriale continua e frastornante. Calati, quasi affogati più o meno consapevolmente, negli abissi di noi stessi. Ogni cosa è simbolica e strettamente realistica, come lo sono la mente e il sentire di un individuo conscio di essere al capolinea del passaggio terreno, e che sceglie di interrompere la fuga dal piano materico, immergendovisi con ogni fibra, diventandone finalmente parte prima di lasciarlo. Bowie, da ricercatore quale è stato in tutta l’esistenza, si è buttato a capofitto in questa ultima, straziante e totalizzante esperienza. Perché fosse costruttiva, crescita personale, un’occasione còlta; supremo atto artistico affamato di trascendenza, questa volta però pervaso dall’accettazione di ciò che si è e che si smetterà di essere. Lo smarrimento più oscuro per la luce più abbagliante. Il processo creativo è il medesimo utilizzato lungo cinque decadi di carriera: la circolarità di simboli, discipline e alter ego, ma ancora una volta con una veste nuova, evoluta. Un’ottava superiore di ogni cosa, in una summa conclusiva. Dove, con una lucidità e un’ispirazione acutissime, dramma, dolore, confusione e delirio si trasmutano in passione, amore ed elevazione. Fra le maschere indossate dall’artista negli anni, l’affinità elettiva con il personaggio di Newton appare l’unica scelta possibile come protagonista, la guida perfetta per il Viaggio da compiere.
La macchina attuata da Malosti funziona alla perfezione in ogni sua componente, a cominciare dalle due teste di serie: Casadilego mantiene la sua innata capacità di portare chi l’ascolta nell’altrove, peculiarità ottimale per il ruolo e per lo spettacolo; Agnelli è francamente quasi strabiliante nell’essere coerentemente sé stesso e così visceralmente intriso dell’universo bowieano, riportandolo fedelmente al pubblico ma con una naturale indipendenza e una forza interpretativa che arriva come un fiume in piena. Le possibili imperfezioni recitative di chi non è professionista del mestiere scompaiono sotto le proprietà interpretative e il meraviglioso peso di performance musicali di un livello cui raramente si ha il piacere di assistere.
Insieme agli altri attori già citati, vestiti dai costumi temporalmente trasversali di Gianluca Sbicca, la favolosa band composta da Laura Agnusdei ai sax, Jacopo Battaglia alla batteria, Ramon Moro a tromba e flicorno, Amedeo Perri a tastiere e synth, Giacomo “ROST” Rossetto al basso, Stefano Pilla e Paolo Spaccamonti alla chitarra, restituisce anche al fan più accanito, e magari dubbioso o prevenuto, tutta l’espressione vibrante e le emozioni intrinseche della musica di Bowie.
I brani presenti sono stati scelti da Walsh, come richiesto da Bowie, da una rosa più ampia che egli gli presentò durante la stesura del progetto:
Lazarus
It’s no game
This is not America
The Man who sold the World
No plan
Love is Lost
Changes
Where are We now?
Absolute beginners
Dirty boys
Killing a little time
Life on Mars?
All the young dudes
Always crashing in same car
Valetine’s day
When I met You
Heroes
L’impianto scenotecnico di Nicolas Bovey, semplice e articolato al contempo, rappresenta egregiamente la moltitudine dei piani di coscienza-esistenza-sogno; ciò che accade sul palcoscenico si integra, mescola e dissolve coi video di Luca Bianchi e Daniele Spanò, in una danza macabra, agevolata dalla piattaforma girevole al centro del palco, enfatizzata dalle luci di Cesare Accetta, guidata dalle coreografie curate della stessa Michela Lucenti, tra armonie e distonie, compulsività e arresa. Ogni maestranza e artista in questa rutilante e complessa opera ha contribuito a un risultato che credo nulla abbia da invidiare alle altre edizioni, anzi; neanche alla prima, dove l’occhio supervisore dell’autore era presente e sicuramente parte decisionale attiva. E ritengo in tutta franchezza che anche Bowie sarebbe stato pienamente soddisfatto della comprensione del suo lavoro e di come è stato portato in scena. Se non avete afferrato l’occasione di assistere a questo spettacolo, sperate ci sia una ripresa nella prossima stagione. Fosse mai, non lasciatevelo scappare.
Chiara Vecchio
Fotografia di Fabio Lovino