L’arte dei Mellon al Palazzo Zabarella di Padova
C’è chi colleziona francobolli, c’è chi colleziona quadri. E menomale, aggiungerei. Perché se gli abbienti amatori si rivelano anche umanisti illuminati allora molto probabilmente accadrà che, alla loro morte, tutta quell’arte che prima stava in salotto venga spostata in qualche grande istituzione pubblica, dove tutti potranno bearsene. Certo, bisogna poi anche considerare che non sempre le istituzioni agiscono in maniera altrettanto saggia, ma questo è un altro discorso.
Il secolo scorso, comunque, due ricchi coniugi americani hanno operato per il bene pubblico, raccogliendo in giro per l’Europa tanta arte che altrimenti sarebbe andata perduta quando non svenduta: la loro idea era quella, non innovativa ma sicuramente molto democratica e dunque encomiabile, di acquistare quanta più arte francese di fine Ottocento e inizio Novecento, arredare casa e poi cedere tutto alla comunità. E così è andata. Paul Mellon era il figlio del 49° Segretario del Tesoro degli Stati Uniti d’America (la quinta carica dopo il presidente), aveva studiato a Yale e pure a Cambridge, aveva lavorato per la banca di famiglia, nel ’35 il primo matrimonio, e poi si era arruolato nella cavalleria statunitense durante la guerra. Quando la prima moglie morì, lui si risposò con Rachel Lambert Lloyd, ereditiera di matrice industriale, amica dei coniugi Kennedy, anche lei in seconde nozze, e con due figli. Lui è morto nel ’99, lei appena sei anni fa, e così si è arrivati alla donazione al Virginia Museum of Fine Arts di Richmond. Di per sé, la raccolta non è particolarmente sconvolgente, per quanto raffinata: i nomi, infatti, sono i soliti, i più inflazionati. Ci sono Van Gogh, Monet, Degas, Renoir, Bonnard, Picasso, Braque, Rousseau. Però spesso i singoli pezzi sorpassano la grandezza intrinseca di questi nomi, e si presentano con la forza della loro singolarità: Van Gogh non è stato scelto per i girasoli, ma per le margheritine dipinte ad Arles; Degas è presente con una replica della solita ballerina, ma anche con uno splendido e angosciante frame della modernità dove una donna si guarda allo specchio dalla modista e perde la faccia. I covoni di fieno non sono né quelli di Monet né quelli di Van Gogh, ma piuttosto quelli del meno noto Kees Van Dongen, espressionista olandese squisito e ansiogeno. Manet racconta una spiaggia quasi metafisica, anticipatrice del De Pisis più estremo, dove gli umani sono stati ridotti a sagome di carta che non interagiscono granché tra loro, mentre sullo sfondo il cielo terso di Boulogne-sur-mer si chiazza del nero che si sprigiona dai fumaioli delle navi. E poi, oltre ai più quotati, ci sono anche Caillebotte, Boudin, Morisot, Dufy, che molti tendono ad accantonare senza un motivo valido, dato che spesso hanno dimostrato il loro valore artistico, che nulla ha da invidiare ai primi citati. Anzi.
Dal 26 ottobre 2019, una rosa di settanta opere della Mellon Collection selezionata da Colleen Yarger è sbarcata nella nostra penisola. Siamo a Padova, in centro: a due passi da Piazza della Frutta si erge in tutto il suo splendore medievale Palazzo Zabarella, così chiamato in onore del suo ultimo proprietario privato, Giacomo, morto nella prima metà dell’Ottocento. Attualmente lo stabile ospita la sede della Fondazione Bano, che ogni anno promuove e organizza mostre degli artisti storicizzati ai quali tutti bene o male siamo legati. Ed è anche grazie a quest’ultima che Padova è riuscita ad ospitare questo grande e piacevolissimo evento. La mostra, infatti, è davvero gradevole, e anche abbastanza stimolante, poiché (come spiegato in precedenza) propone un’antologia di brani artistici riconoscibili ma anche particolari, dove un’iper-distinguibilità innegabile cede comunque volentieri il passo all’inedito del singolo pezzo esposto.
La mostra, intitolata “Van Gogh. Monet. Degas“, sarà vistabile fino al 1 marzo di quest’anno. Affrettiamoci, dunque.
Davide Maria Azzarello