“L’Angelo e la mosca”: mistica e teatro nella conferenza-spettacolo di Civica
“Che cos’è la mistica? Non lo so. Che cos’è il teatro? Non lo so. Ma partire dicendo la verità è sempre un buon inizio”. Spiazza la schiettezza con cui il regista e attore Massimiliano Civica conduce la parola sulla scena, inaugurando ufficialmente, martedì 4 ottobre, la stagione del Teatro Basilica, con una conferenza-spettacolo dal titolo “L’angelo e la mosca”. Una tra le personalità artistiche più premiate nel panorama teatrale italiano, il cui modus operandi è consacrato a un teatro come cosciente esperienza di condivisione.
A pochi istanti dalla prima, stupisce vederlo chiacchierare nel foyer, per poi ritrovare subito dopo i suoi grandi occhi puntati come fari verso la platea, ad ammettere insieme che la vera potenza del teatro siamo noi e le storie che raccontiamo. Un’asta con il microfono e un leggio sono i fedeli compagni di questa grande traversata. Dall’Oriente all’Occidente impariamo a conoscere le novelle di Baal Shem Tov e dei Rebbe dello Shassidismo, le storie dei Sufi e le poesie di Jalal al-Din Rumi, gli indovinelli dello Zen e le parabole di Jesù nei Vangeli Apocrifi. Non mancano riferimenti ai grandi maestri teatrali del Novecento: Peter Brook, Grotowski, Eduardo de Filippo. Una trattazione divertente e insolita, che pungola la riflessione dello spettatore sulla propria vita, ma in maniera popolare. D’altronde come sosteneva lo studioso Rocca in merito alla democratica fruibilità di una messinscena: “lo spettacolo perfetto è quello che piace a me e al mio portiere”. In che punto preciso, però, della trama scocchi la scintilla tra mistica e teatro, è un’incognita che Civica affida al pubblico, perché lo spazio del teatro si forma sempre nella mente dello spettatore, ed è lì, più di qualsiasi altro posto, che la fantasia creatrice diventa atto religioso.
Diverse le tematiche affrontate, ad esempio, in merito al rapporto tra regista e attore, durante le prove, specialmente all’inizio, lungimiranti sono le prediche di Rabbi Uri: “L’uomo è come un albero. Ti metteresti davanti ad un germoglio d’albero e spieresti con ansia e in continuazione di quanto è cresciuto? Non vedresti nulla. Saresti lì a rimproveragli di non dare da subito frutti. Ma curalo sempre, taglia ciò che in esso è inservibile, proteggilo dagli insetti e, a tempo debito, sarà diventato grande. Come un albero è l’uomo: ha bisogno di tempo, è necessario curarlo e aiutarlo a superare gli impedimenti della crescita, affinché raggiunga la sua altezza. Non si deve esaminare in ogni momento di quanto egli è cresciuto e rinfacciargli di non dare da subito frutti”. Una cura e pazienza che in Italia paiono non trovare una sana ed efficace risposta, visto che secondo il regolamento ministeriale bastano ventuno giorni di prove come preparazione a uno spettacolo, contro le dieci settimane che Peter Brook reputava la soglia minima e indispensabile per essere messi nelle condizioni ottimali di farne uno. E ancora si considera la mistica come apertura al possibile, il vuoto come qualcosa che ancora non conosciamo, simile a quei rari momenti che accadono in teatro, in cui un profondo sentimento condiviso da attori e spettatori risucchia tutto in un vivente silenzio. E questo è il più raro e sommo spazio vuoto, secondo Peter Brook.
Si affronta il sentimento della perdita, a cui non siamo per nulla abituati, perché cresciuti secondo modelli di appropriazione, volti a raggiungere traguardi e successi, piuttosto che provare a sentire, a esserci. E, oltre alla perdita, si nomina anche la pratica della compassione, come dovrebbe fare un regista in ascolto vivo con i suoi attori, come dovrebbe fare un uomo verso il suo prossimo. Assistiamo ogni giorno a una grandissima debolezza da tutti i punti di vista, etico, politico, sociale che non risparmia nemmeno il teatro frustrato da incertezza e scarsa avvedutezza. Come sostenuto in varie interviste dallo stesso Civica, per fronteggiare questa debolezza artistica è indispensabile fuggire dall’autoconservazione dei teatri. Fino a quando, infatti, un teatro pubblico per restare aperto dovrà dare conto solo ai numeri, si mette a repentaglio il buon lavoro del teatro stesso. Bisogna rendere economicamente vantaggioso per i teatri il rischio artistico, la qualità degli spettacoli e l’apertura a tutta la popolazione. Sul finale, gli splendidi versi del teologo Maister Eckart ci esortano a un ritorno al senso più profondo e necessario del sentirsi e agire come comunità, inseguendo il vero laddove mistica, teatro e uomo trovano un’unica dimora, la stessa: “Perciò preghiamo Dio di diventare liberi da Dio, e di concepire e godere eternamente la verità là dove l’angelo più alto e la mosca e l’anima sono uguali”.
Diana Morea
Foto di Ilaria Costanzo