“L’Amleto” di Valerio Binasco alle Fonderie Limone di Moncalieri
Che ci sia del marcio in Danimarca, è cosa nota. A maggio, però, quel marcio è arrivato fino a Moncalieri: dal 30 aprile al 19 maggio, infatti, “Amleto” e tutta la shakesperiana compagine di Elsinore sono stati interpretati sul palco delle Fonderie Limone, che fanno parte del circuito del Teatro Stabile di Torino. La regia porta la firma del celebre Valerio Binasco, padernese classe 1964, direttore artistico dello stesso Teatro Stabile dalla primavera del 2017. Qui, Binasco, da sempre attivo sostenitore di un riavvicinamento tra teatro e pubblico, riconferma il valore della sua forma mentis anti accademica.
Come spiega molto bene il consulente per la drammaturgia Fausto Paradivino, “Amleto è il dramma più lungo che Shakespeare abbia scritto ed è anche quello che ha scritto più a lungo. Questo non fa bene alla coerenza perché i dieci anni e più che Shakespeare ha passato su Amleto non li ha evidentemente spesi in editing. Ci sono tanti Amleti in Amleto, questa è la follia del protagonista. E quindi, quando si fa Amleto[…] bisogna un po’ scegliere che Amleto fare“. Binasco ne ha proposto uno accessibile, coinvolgente, spiritoso, tragicomico, intelligente ma di quell’intelligenza giovanile che si rivela spesso esitante, irrisolta, perplessa. Il testo è stato leggermente semplificato ma non banalizzato: la trama è quella che tutti conosciamo, ma per l’occasione è stata riorganizzata secondo dei sani criteri che l’hanno resa fruibile anche per chi magari non ha mai letto il testo originale. L’opera mantiene la sua autorevolezza, ma la riformulazione lessicale ne garantisce la ricezione per un pubblico eterogeneo. In questo contesto, anche la scenografia proposta da Nicolas Bovey trova la sua ragion d’essere: se all’inizio l’asetticità del palco può disattendere l’aspettativa dello spettatore, con l’incedere della vicenda quest’estetica del vuoto trova una sua giustificazione ben precisa. Senza una reale scena, infatti, il pubblico può concentrarsi sull’universalità degli ancestrali gesti dei personaggi. Questo Amleto non vuole che assistiamo passivamente alla messinscena: ci invita e ci costringe, anzi, ad immaginare la trama, a sovrapporla ed imbastirla alle nostre esperienze di vita. E a questa idea aderisce anche la costumista, Michela Pagano, che ha proposto un abbigliamento tanto semplice quanto sorprendente: tutti i personaggi, infatti, vestono i panni di una modernità fatta di completi gessati, giacche a doppio petto, cappotti di loden tre bottoni, cravatte, tailleur, gonne al ginocchio, tacchi a spillo, pigiami. Quest’assembramento danese è avvolto negli stessi strati con cui ci copriamo anche noi: forse siamo più simili a loro di quanto non crediamo, quindi.
Particolarmente lodevole l’interpretazione di Gabriele Portoghese, che sa affidare al pubblico il cuore di colomba di un Amleto potentissimo, un Amleto che ruggisce soavemente quando denuncia al cielo tutte le ataviche ingiustizie di cui è vittima. Un Amleto che pronuncia la celebre formula dell’essere o non essere rannicchiato in un angolo e che poi sfonda la quarta parete per portare la sua sana disperazione tra le poltrone degli astanti. Sicuramente, poi, vanno ricordati Nicola Pannelli – un Polonio memorabile, lacchè impettito alla corte degli ipocriti di cui asseconda l’ipocrisia – e Mariangela Granelli, splendida e tormentata Regina Gertrude, donna disorientata tra uomini fin troppo inclini a quei malsani furori slanciati verso una violenza sanguinaria di cui il mondo potrebbe e dovrebbe fare a meno. Un cast molto ben assortito, insomma.
Davide Maria Azzarello