“L’albero e la vite” di Dorothea Rosalie
“L’albero e la vite” (La Nuova Frontiera, pp. 134, euro 16,90) è il romanzo di Dorothea Rosalie (Dola, il diminutivo coniato per lei dal fratello Hans) de Jong, olandese, che ha passato la maggior parte della vita negli Stati Uniti. Pubblicato con non poca fatica nel 1954, è stato poi riportato alla luce dalla fine degli anni ’90.
“Da quella sera da Wies la vita di Erica entrò a far parte della mia. Un incontro del tutto casuale – per quanto mi chieda spesso come sarebbe stata la mia vita senza di lei. Per molto tempo pensai di aver avuto un ruolo da mera spettatrice, ora invece so di avere cambiato la mia rotta per lei. Chi può dire se sia stato meglio così o se magari non sarei stata più felice senza di lei? Io no di certo.”
Amsterdam, 1938. Erica entra nella vita di Bea all’improvviso e per puro caso. Si incontrano a casa di una comune amica, da cui Bea quel giorno si reca controvoglia. Decideranno presto di condividere casa, ma non potrebbero essere più diverse: Bea è misurata, razionale, vive ogni aspetto dell’esistenza con una sorta di passiva rassegnazione. Erica invece è ribelle, imprevedibile, spericolata, ogni sua azione è dettata dall’istinto. Un rapporto difficile, segnato dai continui via vai di Erica, dall’istinto materno e di protezione che Bea, da un certo punto in poi, sviluppa nei suoi confronti. Bea ha bisogno del conflitto con Erica, anche se la fa soffrire, probabilmente sente che c’è qualcosa che ha la necessità di essere esternato, vissuto. E in effetti il loro rapporto andrà incontro a una trasformazione, fino a diventare un amore difficile da vivere e da confessare, anche a causa della guerra.
Bea, dopo molti anni, rivive e racconta in prima persona quanto vissuto con Erica, per metà ebrea, scavando nel suo animo e forse anche perdonandosi per quel che non è riuscita ad affrontare fino in fondo.
Una storia delicata sulla personalità che si forma, fino a emergere incontrollata.
Erica, in una notte di confidenze con Bea, si definisce sbagliata. E fu quasi una catarsi perché dopo di allora mai più si definì così, si rassegnò alla sua natura, accettandone le conseguenze e godendosi la vita. Bea la ammira per questo: Erica è sì una ribelle, ma sa vivere in pieno, noncurante del giudizio degli altri. E porterà questo suo essere fino all’estremo, andando incontro al pericolo che una guerra insensata porta con sé.
Una figura estremamente moderna e attuale. Erica, un’eroina e tuttavia condannata, perché troppo spontanea, poco capace di seguire la mente.
“Per me è lì che iniziò la guerra, nella stanza di Erica. L’immagine di lei, curva sull’apparecchio, quasi ne venisse risucchiata, per me rappresentava l’invasione, gli scontri, i bombardamenti, la sconfitta di un popolo fiero. Vedevo solo Erica, a un tratto così completamente paralizzata, così devastata che la voce della radio probabilmente costituiva per lei l’unico appiglio.”
Molti ebrei olandesi si sentivano protetti dalla follia di Hitler dalla propria coscienza nazionale, in molti non credevano davvero possibile che i piani nazisti potessero prendere il sopravvento su tutto e tutti.
Un romanzo che è una denuncia della guerra moderna, la guerra al diverso, la guerra col pretesto del diverso. E se quando il libro viene scritto e va in cerca di pubblicazione, l’amore tra donne era ancora considerato una malattia, la de Jong, con una scrittura pacata ed equilibrata, sa far emergere con forza il concetto esattamente contrario.
Laura Franchi