Lady D rivive nel monologo di Paola Giorgi al Teatro Brancaccino
“Ci sarebbe da ridere, se non fossi morta”.
Portare in scena quelle personalità che hanno segnato la storia mondiale, quelle che definiamo miti e che rimarranno impressi nel tempo, è sempre un’impresa difficilissima e azzardata. Perché la memoria che ognuno di noi conserva di questi personaggi è indelebile, precisa e difficile da scalfire. Ci prova Paola Giorgi – in scena al Brancaccino di Roma dal 9 al 12 gennaio con “La principessa Diana e la palpebra di Dio” scritto da Cesare Catà e diretto da Luigi Moretti.
Conosciamo tutti la sfortunata storia della principessa del Galles, amatissima dal popolo. Paola Giorgi accoglie il pubblico immobile, con l’usuale colore bianco indossato da Lady D, distesa su un immenso prato nero. In diversi punti del prato ci sono botole, rosicchiate dagli angeli ribelli. Si chiamano palpebre di Dio. Attraverso di esse, i morti possono farsi sentire e percepire da chi è rimasto sulla terra. Attraverso di esse, Diana sente la voce dei suoi figli che la chiamano. Comincia, sin da subito, la carrellata di ricordi di Diana Spencer: la sua infanzia, l’incidente con Dodi Al-Fayed, la vita a Palazzo, il matrimonio, i figli, i media, la regina e quella solitudine, sempre presente. Ricordi che vanno e vengono e si intrecciano evocando i miti della Medea di Euripide, prigioniera delle sue passioni è vittima dei pregiudizi; l’opposizione e l’emancipazione dell’Antigone di Sofocle; e l’Arianna di Ovidio, innamorata e ingannata da Teseo. Diana guarda oltre e parla anche del futuro dei suoi figli, pensiamo subito a cosa penserebbe delle decisioni di oggi di Henry, immaginandone la reazione.
Ed ecco anche l’ombra di Diana, fuoriuscire da tende bianche di luci prima blu poi rosse: Chiara Orlando che con la sua tromba riempie l’atmosfera di jazz. La passione di Paola Giorgi per questa figura fragile e forte al tempo stesso riempie il palcoscenico, rituffandoci per cinquanta minuti a Parigi, in una triste notte d’estate del 1997 sotto il Pont de l’Alme, in cui una stella si è spenta.
Marianna Zito