L’accabadora di Michela Murgia al Teatro Astra di Torino
Dieci anni fa è stato pubblicato uno dei romanzi più incredibili di questo secolo. Era il 2009, e Michela Murgia iniziava a guadagnare una notorietà che continua a meritarsi. Un anno prima, Virzì aveva portato nei cinema il suo primo splendido romanzo, Il mondo deve sapere. Poi, appunto, è arrivato “Accabadora”, col quale ha ottenuto i premi Dessì, Mondello e Campiello. Un libro straordinario, che si insinua nella mente del lettore come una rivelazione aspettata per troppo tempo. Siamo a Soreni, negli anni Cinquanta. Qui, in questo sperduto paesino della Sardegna, vive Maria Listru, l’ultima di quattro sorelle orfane di padre. La madre di Maria, però, non sa amare la sua quarta figlia. E allora entra in scena Bonaria Urrai, che la adotta e la cresce come fosse sua. Maria e Bonaria, due metà della stessa esigenza, due anime che si completano a vicenda. Ma su entrambe incombe una figura piuttosto leggendaria, quella dell’Accabadora, colei che (in spagnolo) acaba, e che quindi finisce, chiude, risolve, completa. Colei che uccide, direbbero altri, deviando il discorso. Chiaramente, come per ogni leggenda che meriti il rispetto del lettore, anche questa sfocia nella realtà contingente che concerne tutti. Accabadora è una vicenda di sentimenti negati, riscoperti da altri e poi ricuciti; una storia che dirotta il pensiero sulla giustizia esistenziale, sull’etica, sulla predestinazione.
Per rendere omaggio a quest’opera letteraria d’indubbio valore è accorso prima il cinema, con il film di Enrico Pau di due anni fa, e poi il teatro, grazie ad una squadra di donne abilissime: Carlotta Corradi, drammaturga, ha riadattato il testo per il teatro; Veronica Cruciani ha firmato la regia e Anna Della Rosa ha interpretato Maria Listru. L’intervento drammaturgico ha previsto che si partisse quasi dalla fine del libro, e cioè da quando Maria scappa a Torino dopo aver scoperto chi è l’accabadora. Siamo, più o meno, a pagina 125 della prima edizione del romanzo: la ragazza racconta quella che a lei sembra una follia, e cioè “la strana storia delle vie squadrate di Torino, che pareva fossero state disegnate in anticipo rispetto ai luoghi in cui avrebbero dovuto condurre; l’idea che i torinesi avessero prima di tutto deciso il viaggio, e solo in un secondo momento si fossero dati da fare per costruire come meta le case, le piazze e i palazzi, le sembrava talmente illogica che nelle prime lettere alle sorelle Maria continuava a raccontarla come se fosse una divertente novità. Quell’ordine millimetrico la urtava nel buon senso, convinta che per le strade il modo giusto di nascere potesse essere solo quello di Soreni, le cui vie erano emerse dalle case stesse come scarti sartoriali, ritagli, scampoli sbilenchi, ricavate una per una dagli spazi casualmente sopravvissuti al sorgere irregolare delle abitazioni, che si tenevano in piedi l’una all’altra come vecchi ubriachi dopo la festa del patrono”. Un esordio particolarissimo ma molto azzeccato, proprio della prospettiva di Maria che, per l’occasione, diventa protagonista e unica interprete: la tzia Bonaria vive solo attraverso i discorsi di lei, aleggia come una singolare presenza nitida che poi, a ragion veduta, si sovrappone all’anima della figlia adottiva. Dopodiché, l’azione procede sia a ritroso, raccontando il passato, sia in avanti, spiegando le pieghe di un futuro prossimo. L’unico problema oggettivo di questa scelta narrativa è che crea uno spettacolo dedicabile solo a chi ha già letto il libro: chi non lo ha ancora fatto, potrebbe perdersi nei meandri di questo spaziotempo costellato di analessi e prolessi. Ma comunque, per chi conosce l’opera, questa “Accabadora” ha molto da trasmettere: forse non aderirà all’immagine che si era proiettata nella nostra mente durante la lettura, ma poco importa.
Dal 5 al 10 novembre “Accabadora” è andato in scena al Teatro Astra di Torino. Scrosci di applausi meritatissimi per Anna Della Rosa, che ha saputo restituire agli spettatori una Maria davvero sconvolgente. Tragica, magica, a tratti tetra, l’attrice si muove sul palco con la consapevolezza di chi sa di dover incarnare una fanciulla innocente chiamata per necessità ad ereditare un mestiere sicuramente difficile. Attraverso di lei palpita – indomata – quella creatura straziante e inesperta a cui il destino affida la parte di una moderna moira Atropo, che recide il filo della vita a chi di fili ne aveva recisi molti di più. Però, i complimenti devono necessariamente indirizzarsi anche ad Antonio Belardi, che ha plasmato la spigolosa scena in cui si dipana la vicenda: uno spazio tanto incredibile quanto semplice, fatto di vuoti più che di oggetti, di aria greve e non di inutili orpelli. Una scenografia che poi migliora ancora di più quando è illuminata dai tumultuosi giochi cromatici di Gianni Staropoli e Raffaella Vitiello. Lodevole, e molto, anche Anna Coluccia, che ha vestito Anna Della Rosa in maniera attenta, puntuale, scrupolosa. Geniale, infine, l’intervento musicale di John Cascone, che conferisce al tutto un’aura quasi maliarda, dove l’incanto il prodigio e il portento s’intrecciano per pungere abilmente gli astanti.
Davide Maria Azzarello