“La vita tra le righe, oltre il muro trasparente”: Paolo Valerio ci porta in campo con lui al Teatro Franco Parenti di Milano
Un uomo. Solo. Sul campo, il palcoscenico. Di fronte a lui, un muro trasparente. Dietro a questo muro, noi spettatori. Inizia la partita.
Colpisci forte
David Foster Wallace, uno dei più grandi autori della letteratura moderna e, per distacco, l’uomo capace di scrivere le parole più toccanti e significative di sempre su quella splendida metafora della vita che è il tennis, sosteneva a ragione che “il profano non può percepire quello che succede dentro il giocatore: aggiustamenti minuscoli, incessanti, e un senso degli effetti di ogni singolo cambiamento che si acuisce al progressivo allontanarsi dalla normale consapevolezza”. Vero.
Colpisci più forte
L’intuizione di Paolo Valerio, certamente memore della lezione di DFW, è potente: portare in scena, facendo leva sull’ossessiva implacabilità di mille palleggi, la trascendenza della ripetizione, fino a rendere epico, attraverso la sua performance, il delirio solipsistico del giocatore, ovvero dell’uomo che è in lui.
Colpisci prima, colpisci prima…
Il giocatore di tennis, professionista o meno, è lo sportivo (di più, probabilmente forse anche l’essere umano) che in assoluto parla di più con sé stesso. Max, interpretato da Paolo Valerio, è protagonista di un monologo lungo quasi mille palleggi in cui elabora, analizza, distrugge, ricompone attraverso aggiustamenti minuscoli, incessanti (come il tennista di David Foster Wallace) la sua strategia di gioco e di innamoramento nei confronti di Giulia. Per farlo, Max approfitta di ogni dato, di ogni minimo vantaggio a suo favore, comprese le informazioni che possiede sul suo avversario-partner. Con lei, e con noi, danza al ritmo dei suoi palleggi contro il muro trasparente che lo separa, ma in realtà lo unisce, con la platea. I suoi pensieri e le sue parole sono colpi: a volte delicati, altre volte più violenti, che rimbombano al di sopra della musica nelle nostre cuffie e ci rimbalzano nello stomaco, mentre cuore e polmoni lavorano al ritmo dei suoi.
Il tennis è uno sport pieno di paradossi, così come paradossale è la vita: più di ogni altro è basato sulla comprensione delle mosse altrui, e al contempo più di ogni altro è desolatamente, implacabilmente, autistico.
Mai in rete, maledizione, più topspin!
Paradossi, contraddizioni apparenti.
Odi et amo. Come dice Andrè Agassi in Open, la sua memorabile biografia, “Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare. ( )
Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi pare l’essenza della mia vita.”
La vita è un paradossale incontro di tennis tra poli opposti. Vincere e perdere, amare e odiare, uccidere o essere uccisi, sconfiggere ed essere sconfitti sono le due facce, il piatto corde apparentemente identico di una racchetta che, come si faceva una volta, possiamo a inizio match far ruotare sulla punta perché infine cadendo decida il nostro destino: servizio o risposta, campo contro o a favore di sole, vento da destra o da sinistra. Da quel momento in poi saremo soli. Soli come un pugile sul ring. Peggio. Non ci sarà un posto dove nascondersi quando le cose andranno male. Niente panchina, niente bordo campo, nessun angolo neutrale. In campo, saremo sempre soli. E nudi. Lì, nella nostra bolla impermeabile a ogni influenza esterna, inizieremo la nostra danza con noi stessi.
Game, set, match Paolo Valerio
Il finale della prima parte spettacolo è un richiamo al “drago” evocato da Agassi in Open, un infernale attrezzo lanciapalle che ti costringe a colpire più forte e più in fretta di lui, e non si ferma mai. La macchina entra in azione lanciando dalla platea palline su palline che scavalcano il muro trasparente e che Max si trova a dover respingere, a destra e a sinistra. L’immagine è bella e conclude efficacemente, anche grazie a questo colpo di scena, un viaggio lungo quasi mille palleggi (una nota di merito anche alla prova fisica e alla capacità tecnica dell’attore), ma forse avremmo osato di più, estremizzandolo ulteriormente.
C’è probabilmente spazio e modo per renderlo ancora più intenso, più angosciante, ossessivo, quasi catartico: la fine di una danza, la sua morte del cigno. Non a caso, e con un’altra grande intuizione, nella seconda parte dello spettacolo Paolo Valerio ci invita a salire sul palcoscenico per provare tutto questo: palleggiare contro il muro trasparente, entrare nella “bolla” emotiva e mentale del tennista, danzare con noi stessi.
“Nel tennis il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico; è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l’io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro al gioco: fai breccia nei tuoi limiti; trascendi; migliora; vinci. […] Si cerca di sconfiggere e trascendere quell’io limitato i cui limiti stessi rendono il gioco possibile. È tragico e triste e caotico e delizioso. E tutta la vita è così, come cittadini dello Stato umano: i limiti che ci animano sono dentro di noi, devono essere uccisi e compianti, all’infinito.
David Foster Wallace (Infinite Jest,)”
Il tennis, come la vita, altro non è che una macabra danza con il nostro Io.
Alessandro Bizzotto
Fotografia di L. Rossetti
IL MURO TRASPARENTE – Delirio di un tennista sentimentale
a cura di Monica Codena, Marco Ongaro e Paolo Valerio
con Paolo Valerio
scena Antonio Panzuto
progetto fonico Nicola Fasoli
fonica Carlo Turetta, Borut Vidau
direttore di scena Paolo De Paolis
disegno luci Marco Spagnolli
luci Davide Comuzzi, Alessandro Macorigh
una coproduzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e Teatro Stabile di Verona