La Trinacria al Regio: Pirandello e Verga attraverso la danza e l’opera
Il giugno del Teatro Regio di Torino è stato dedicato a una doppia suggestione siciliana: dal giorno 12 al 22 sono andati in scena, per un totale di nove repliche, “La giara” di Roberto Zappalà e la “Cavalleria Rusticana” di Gabriele Lavia. La prima parte della serata (o della matinée) riguardava la reinterpretazione contemporanea del balletto basato sull’omonimo racconto di Luigi Pirandello, mentre una seconda fase vedeva protagonista l’atto unico dell’opera lirica che si rifà alla celebre novella di Giovanni Verga. Due spettacoli, due momenti narrativi che si incontrano per creare un’unica occasione teatrale d’indiscutibile interesse contenutistico e formale.
Si abbassano le luci, s’apre il sipario, decollano le musiche effervescenti di Alfredo Casella magistralmente dirette da Andrea Battistoni e il palco si popola di una sgargiante compagine di undici ballerini (tutti maschi) che agiscono all’interno di un grande ovale monocolore. Ciò che in primis salta all’occhio è il tripudio cromatico dei costumi: le creazioni di Veronica Cornacchini, infatti, che ricordano delle maioliche barocche,rimangono impresse negli occhi degli astanti. Dopo un’attenta riflessione, l’ovale si rivela essere il collo di quella giara che non è più un oggetto, come nel testo di Pirandello, ma il luogo fisico in cui la trama si dipana. ‘A giarra dell’autore girgentino rimane, ma Zappalà sceglie di elevarla a scenografia che ascrive in sé stessa una spumeggiante coreografia che però – è bene specificarlo – non si propone come la ripresa della trama del testo originale: tutta la storia di Don Lollò e del conciabrocche Zì Dima che rimane incastrato nella giara stessa non viene raccontata, non viene danzata. Viene effettivamente rievocata. La rottura stessa del fantomatico vaso è già accaduta fuori scena, come ci spiega il drammaturgo Nello Calabrò. La giara della compagnia di Zappalà (nata diciannove anni fa) non è un balletto che reinterpreta quella prima al Théâtre des Champs-Elysées del 1924, quella coreografata dallo svedese Jean Börlin e resa unica dalle scene e dai costumi di niente meno che Giorgio De Chirico. Ma comunque, per quanto soggetti a un’opera di semplificazione, i contenuti pirandelliani sopravvivono anche qui: la prigione personale di Zì Dima diventa un carcere corale, sociale, dove in realtà si rivedono anche gli spettatori. In un certo senso, Zappalà va oltre Börlin e De Chirico, perché grazie alla scenografia il pubblico non assiste alla storia, ma ci si ritrova dentro. La lezione dello scrittore sulle forme che intrappolano gli uomini non solo sopravvive, ma si amplifica, perché noi vediamo il cielo dalla stessa prospettiva di chi è bloccato nella giara, che qui è metafora della forma socioculturale dalla quale non si riesce a fuggire. Secondo Nello Calabrò, poi, la giara è il mediterraneo, Sicilia che accoglie, […] dispensatrice di morte e al contempo benefica madre: dell’effettiva presenza di questa suggestione nelle menti del pubblico, comunque, bisognerebbe quantomeno dubitare. Inoltre, va detto che qui il rischio dell’equivoco è alto, ma se ci pensiamo è sempre così per le espressioni d’arte contemporanea non ancora storicizzate: col tempo capiremo tutto meglio. Nel foyer, poi, si odono cogitabonde voci di spettatori che recriminano sull’assetto forse troppo vanesio di una versione che celebra una contemporaneità danzereccia estrema, ma i brontolii delle madame molto probabilmente non faranno la storia. E poi in fin dei conti quella di Zappalà è la naturale evoluzione dell’estetica avanguardistica dalla quale un secolo fa emerse il balletto de La giara. Forse il risultato è perfezionabile, però è anche gradevole, divertente, grazioso. Suggestivo.
Dopo uno spritz al bar nei meravigliosi labirinti ideati da Carlo Mollino, quando i borboglii su La giara si sono pian piano estinti, il pubblico rientra in sala per la seconda parte. Argomentare sulla Cavalleria rusticana, chiaramente, è più facile: si tratta di una versione molto ben curata (e rassicurante, per certi versi) di una storia che conosciamo bene. D’altronde, una firma è una garanzia: Gabriele Lavia è un professionista d’indiscusso valore, un punto di riferimento, ormai quasi un caposaldo della cultura italiana. Un uomo di teatro (e di cinema) che in quest’occasione, come nelle precedenti, ha dimostrato di saper abilmente mantenere le redini di una regia operistica. Andrea Battistoni prosegue la conduzione che aveva iniziato con La giara, e dirige qui gli spartiti di Pietro Mascagni modulando opportunamente i passaggi musicali a seconda dei personaggi. Anche qui, le scene sono molto accattivanti: l’eclettico artista milanese Paolo Ventura, che ha scelto anche i costumi e che ha già lavorato con Lavia per I pagliacci, ha realizzato un impianto che rievoca molto bene l’immaginario magmatico della Sicilia di Verga. Bellissime, per esempio, le due lingue di fiori/fuoco/sangue retroilluminate da Andrea Anfossi. Volendo essere pignoli, comunque, anche nella magistrale operazione di Lavia una pecca la si può individuare: il cavallo che traina il carretto di Alfio, infatti, è un vero cavallo. Scelta legittima, certo, ma anche un’obiettiva involuzione: negli anni in cui i circhi rinunciano agli animali noi li deportiamo all’opera? Speriamo che non prenda piede una moda del genere. Anche perché viviamo in un’epoca che ci ha insegnato come tutto possa essere reso per metafora o sostituzione: il cavallo in carne ed ossa, quindi, era oggettivamente evitabile. Se si sorvola su questo amaro cameo, comunque, si assiste poi a un’azione canora piuttosto soddisfacente: le voci maschili possono aver creato qualche perplessità, ma Sonia Ganassi e Michela Bregantin – interpreti rispettivamente di Santuzza e di sua suocera Lucia – hanno regalato al pubblico un intervento vocale d’indubbio valore. Attraverso di loro, poi, palpita davvero la trama originale di Verga, per quanto ridimensionata dal libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci. Il finale, poi, è geniale: si racconta che Mascagni non sapesse come musicare l’ultimo verso, e quindi di solito ogni regia sceglie un po’ che strada percorrere. Qui, Hanno ammazzato compare Turiddu! non solo viene urlato in una prosa che è molto più incisiva di qualunque bel canto, ma a chiudere con questa celebre formula è un bambino. Una scelta che, per qualche ragione, dà un’accezione diversa, migliore, a tutta la storia.
Davide Maria Azzarello